«Ciò che è imperscrutabile e illusorio fa parte dell’essenza di ciò che noi siamo. In fondo, esistiamo per un tempo molto breve e non sappiamo cosa ci sia prima dell’inizio né dopo la fine. Questo pensiero è connaturato con la disperazione della condizione umana».
Le parole di Anish Kapoor per spiegare il titolo della sua personale ospitata a Firenze presso Palazzo Strozzi, Untrue Unreal, deragliano dalla mostra stessa e si inoltrano lungo un sentiero che l’artista ha sempre sondato con le sue opere enigmatiche, perennemente in bilico fra visibile e invisibile. Dall’inganno della percezione in quei neri convessi e concavi che sembrano «buchi», dalle colonne infinite e brancusiane che svettano oltre il soffitto per conquistare il cielo scompigliando le partiture architettoniche, da quel padiglione misterioso che si fa rifugio inghiottente interrompendo la simmetria del Rinascimento (l’installazione site specific nel cortile di Palazzo Strozzi) si passa a una visione filosofica che sostituisce l’apparente dualità di sensi e mente con un organico ed evocativo «tragitto interiore».

Void Pavilion VII, 2023

LO SPETTATORE CHE SI AGGIRA per le sale è sospinto ad uscire dalla contemplazione meditativa per tornare al mondo contemporaneo: incertezza, precarietà della bellezza e un’aliena e pungente sensazione di dolore. Non sono giocose le sculture di Kapoor, neppure quando inventa i suoi colori iconici per ridisegnare i confini degli spazi con continui sfondamenti e rovesciamenti, invitando a camminare in ambienti alternativi a quelli reali.
I rossi brillanti che si sfarinano sul pavimento così come i blu elettrici di meteoriti arrivate da chissà dove, o i neri alchemici, metafisici, che ci risucchiano, rendendoci simili a una disorientata «Alice nel paese delle meraviglie», mantengono stabile un retrogusto malinconico. Sempre, quella che lui chiama «la poetica degli oggetti» è una trama che si tende fra la vita e la morte, un arcipelago di forme residuali che si ancorano tenacemente alla terra, nonostante tutto.
Anish Kapoor, britannico, nato a Mumbai nel 1954 da padre indiano e madre ebrea-irachena, crede fermamente nel passaggio di testimone fra antenati e nuove generazioni, anche se oggi si vede costretto a constatare che il sospetto culturale ha preso il posto della fiducia prima accordata all’atto del tramandare sapienze antiche. Dentro di sé custodisce molte appartenenze ma non amando le etichette, questo artista ha piantato le sue radici negli sconfinamenti, anche percettivi.

NELLA RETROSPETTIVA fiorentina, organizzata dalla Fondazione di Palazzo Strozzi, a cura di Arturo Galansino (visitabile fino al 4 febbraio 2024), il percorso espositivo che prevede un susseguirsi di tappe storiche per giungere al presente è stato creato insieme all’artista. E allora non è casuale che l’itinerario immersivo si apra proprio con Svayambhu, un’installazione monumentale e impressionante che racconta del tempo, della fine, della metamorfosi di ogni cosa (un enorme muro di cera si sposta e sgretola, attivato da un dispositivo meccanico; il suo movimento modula stratificazioni e «contamina» le architetture con schizzi sanguinolenti), a prescindere dalla propria volontà. La parola scelta per il titolo, in sanscrito, definisce ciò che si genera autonomamente, che è «sorto da sé». È qualcosa di ineluttabile.
Kapoor scultore è un unicum nel mondo dell’arte perché ha introdotto l’assenza nel corpo stesso dell’opera «solida». Darkness, specchi che sdoppiano invertendo gli ambienti e immaginari reperti ancestrali sono i suoi soggetti sentimentali, quelli che disciplinano i concetti astratti e la geometria delle forme, trascinandole dentro un mondo viscerale. È quasi una vertigine quella che si sperimenta, ribadita poi dall’uso «disordinato» della cera pura.

NEGLI ANNI PIÙ RECENTI, infatti, il nitore matematico, seppure ambiguo, delle sue sculture ha barcollato a favore di un prorompere di vita (anche sessuale) mista ad angosciose ferite – lo abbiamo visto a Venezia, nella mostra profondamente barocca allestita presso le Gallerie dell’Accademia nel 2022). La trasformazione della materia ha preso il sopravvento, rendendo tutto precario e orfano di una narrazione possibile se non seguendo la linea inesorabile del tempo. Per l’artista, pigmenti, strati di cera, specchi sono una pelle che riveste le sue opere come una matrice originaria e dagli attribuiti magici.
«Nella pelle – dice Kapoor – c’è una sorta di irrealtà implicita che ritengo meravigliosa». La capacità di abbandonarsi allo stupore di fronte ai vuoti, ai frammenti di materia che abitano il mondo come oggetti non più fisici ma intimi, resta così l’atteggiamento migliore per avvicinarsi alla sua arte dalle sfumature esoteriche. In fondo, sostiene l’artista, «se affermassi con insistenza che queste forme sono uscite da una cava come blocchi blu di Prussia, mi credereste».

 

 

MUSEO DEL NOVECENTO, FIRENZE

Cecily Brown, fra demoni, tentazioni e antichi maestri

Cecily Brown, foto di Mark Hartman

Lotta contro i demoni e i tormenti che infliggono l’artista inglese Cecily Brown (è nata a Londra nel 1969), ma lo fa a modo suo, con una forza centrifuga che disintegra la figura impastandola nei colori puri della tavolozza o lasciandola evaporare in dissolvenze incrociate, rarefatte, intrise di sgocciolature. Guarda (con disinvoltura) alle Tentazioni di sant’Antonio, una tavola messa in disparte nella cappella del Museo del Novecento di Firenze (è una versione di epoca rinascimentale che trae origine dalla medesima incisione di Martin Schongauer da cui discende anche quella attribuita al giovanissimo Michelangelo) e cesella frammenti di corpi in un furore di vortici cromatici, linee elettriche, segni anatomici, impigliandoli nel groviglio delle sue Abstract narratives.
Brown sa giocare con i motivi della sua ispirazione, vive fino in fondo la sua affinità elettiva con le iconografie degli antichi maestri, El Greco in primis, rivendicando nella pittura – genere che ha praticato con grande libertà e in dialogo con il passato soprattutto dopo il suo trasferimento a New York – la «sensazione di qualcuno che prende ciò che vuole quando è necessario, lo rigira e lo riconsegna profondamente mutato».
Cresciuta nel Surrey in un ambiente intellettuale – è figlia della scrittrice Shena Mackay e del critico d’arte David Sylvester, tra i primi a sostenere e comprendere l’arte ebbra di Francis Bacon – Cecily Brown ha scelto di evidenziare l’eccesso della materia pittorica, in una carnalità esibita e allusa che quasi confligge con le poetiche concettuali che hanno attraversato la sua generazione.
La mostra, a cura di Sergio Risaliti, per la prima volta conduce Brown a Firenze con circa trenta suoi lavori, tra cui dipinti e opere su carta, snodandosi tra il Museo del Novecento e Palazzo Vecchio. Qui, campeggia su un cavalletto alla vecchia maniera, come in un atelier dell’Ottocento, un solo dipinto, questa volta figurativo: siamo nella stanza segreta – il Camerino di Bianca Cappello, amante del Duca Francesco I de’ Medici – e il quadro è un omaggio all’impudicizia anarchica dell’amore e alle reminiscenze mitologiche.
Ancora il corpo come elemento scultoreo che «altera» il paesaggio naturale con la sua presenza ineludibile è quello che si incontra al secondo piano del museo: in Beauty and desire Robert Mapplethorpe viene posto in un confronto suggestivo con gli scatti del fotografo tedesco Wilhelm von Gloeden (che collocava i suoi modelli in ambienti pastorali e idillici) e una selezione di immagini dall’Archivio Alinari. a. di ge.