Il passato non è solo una terra straniera. Fosse semplicemente questo, come lo definì L.P. Hartley nel celebre incipit del suo romanzo L’età incerta, lo potremmo esplorare con la disinvoltura dei turisti che si aggirano senza inquietudini per luoghi a loro ignoti. Noi, però, non disponiamo di mappe precise. Ci soccorre soltanto una stratificazione di vecchie carte incollate le une alle altre, raschiate e riscritte, palinsesti la cui decifrazione è destinata a rivelarsi elusiva. Né il viaggio è più agevole se dalla dimensione individuale passiamo a quella collettiva.
Esistono città dove l’accumulo di memorie oscurate e dissepolte si infiltra nel presente senza soluzione di continuità. Roma ne è un esempio fin troppo evidente, ma altri luoghi si prestano, come cartine di tornasole, all’indagine di un passato restio ad arrendersi al fluire del tempo.

L’«altra resistenza»
Tra questi Kaliningrad, l’antica Königsberg, la città dove Immanuel Kant trascorse per intero la sua esistenza, è forse il più emblematico: capitale baltica, poi scheggia di Germania in un mare slavo, oggi è un frammento di Russia all’interno dell’Europa, che ne osserva con ambivalenza la presenza aliena. Displaced city, la definisce efficacemente Valentina Parisi – slavista di grande competenza, e autrice, fra l’altro, di una densa Guida alla Mosca ribelle – che in Una mappa per Kaliningrad Una città bifronte (Exòrma, pp. 256, € 15,90) ne ricostruisce con pazienza e passione la storia, saldandola al tempo presente.

A Kaliningrad/Königsberg Parisi va – verrebbe da dire: ritorna – non solo come studiosa. È un viaggio, il suo, che muove dall’infanzia, quando da piccola ascoltava affascinata, pur senza comprenderli del tutto, i ricordi del nonno che durante la seconda guerra mondiale, in un sobborgo della città, Stablack, trascorse più di un anno come internato militare in un lager. Quello degli Italienische Militär-Internierte (IMI), secondo la formula escogitata da Hitler per escludere dalla Convenzione di Ginevra i soldati italiani che si erano rifiutati di combattere con il Reich, è uno dei tanti episodi trascurati della nostra storia. Quando rientrò a Milano nell’ottobre del 1945 dopo una lunga serie di peripezie, Giovanni Magnaghi, il nonno di Valentina Parisi, lo comprese immediatamente: nessuno aveva voglia di ascoltare quelle vicende di fame, fatica, sofferenza.

Questa «altra Resistenza» – così la descrisse Alessandro Natta – prese quindi la forma di rituali racconti di famiglia intorno al tavolo di Natale. Sono oggi quei racconti lontani ma non sbiaditi a guidare i passi di Valentina Parisi nei suoi percorsi attraverso Königsberg/Kaliningrad. Tuttavia le figure fantasmatiche del «tedesco buono» o del «russo del savun» evocate dal nonno si alternano ad altre, anonime o famose, che accompagnano il suo viaggio e che l’aiutano a individuare nei luoghi la «diagnosi del tempo», secondo la lezione dello storico tedesco Karl Schlögel.

C’è Curzio Malaparte, inviato di guerra, autore di un reportage «formidabilmente ben scritto e ideologicamente aberrante», nel quale l’incolpevole Kant viene arruolato come soldato del Führer. Ci sono le voci – quasi un coro – delle migliaia di russi provenienti dagli angoli più lontani dell’Unione sovietica, che all’indomani della guerra furono chiamati a ripopolare la città, mentre gli abitanti tedeschi venivano deportati in Germania, condannati a un esilio che non ha avuto fine. C’è lo scrittore britannico China Miéville, nel cui romanzo The City and the City si immaginano due città dell’Europa dell’est che occupano la stessa area geografica, ma sono fra loro distinte e incompatibili. C’è infine, soprattutto, Iosif Brodskij, che guardò alla «città di K.», alle sue rovine riflesse nelle acque del fiume Pregel, come a «un simbolo universale e sovratemporale dell’inconsistenza delle ambizioni umane».

Approdo a Dolgorukovo
K come Königsberg, l’antica «montagna del re», traduzione letterale dell’antico nome tedesco; K come Kaliningrad, la «città di Kalinin», curiosa e pressoché unica persistenza sovietico-toponomastica, in omaggio al capo di stato dell’Urss morto nel 1946, proprio mentre la città germanica si ribaltava nel suo doppio slavo. Luogo bifronte, e non solo – destinato, anzi, per la sua posizione geografica, ad aprirsi al «contatto con i paesi finitimi e lontani di diverse lingue e costumi», scrisse Kant, che contava fra i suoi migliori amici due mercanti inglesi insediati a Königsberg.

Molto nella città è cambiato da quando il filosofo ne percorreva le strade con una puntualità di orari divenuta proverbiale. Come testimoniano le parole e le immagini (alcune di mano della stessa autrice), ai ruderi del medievale Castello Teutonico, distrutto nel 1968 in quanto «emblema del militarismo prussiano» sono succeduti quelli – altrettanto se non maggiormente spettrali – del Palazzo dei Soviet, la cui costruzione si interruppe negli anni Ottanta, quando ormai il novantacinque per cento dell’edificio era stato realizzato. Rovine sopra le rovine, ma intanto gli sposi continuano a farsi fotografare ogni giorno davanti alla tomba del celibe Kant.
Il viaggio di Valentina Parisi, come il suo libro, non si chiude però nella città bifronte, bensì a qualche miglio di distanza, a Dolgorukovo (il nome odierno di Stablack), davanti a una lapide che in russo e in italiano ricorda coloro che qui persero la vita. Un cerchio si chiude, la missione è compiuta. Nuovi strati si aggiungono al palinsesto del ricordo.