Tra i vari maestri che Mario Botta ha guardato con interesse Louis Kahn è forse quello che più lo ha attratto. Scontato, quindi, che per inaugurare il suo Teatro dell’Architettura, costruito vicino all’edificio che ospita l’Accademia da lui stesso fondata nel 1995, Botta abbia scelto quale evento espositivo d’apertura la vicenda veneziana della mancata realizzazione, sul finire degli anni sessanta, del Palazzo dei Congressi. La storia è nota e vissuta dallo stesso Botta in prima persona in qualità di corrispondente locale dello studio di Filadelfia dell’architetto estone-americano, quando era studente di architettura all’IUAV. La mostra Louis Kahn e Venezia (fino al 20 gennaio 2019), a cura di Elisabetta Barizza e Gabriele Neri, ricostruisce, attraverso disegni e documenti originali provenienti dalla Louis I. Kahn Collection dell’Università della Pennsylvania, la complessa genesi e il fallimento del progetto kahniano per Venezia. Si inizia dal suo primo soggiorno nella città lagunare, nel 1928; si prosegue con il secondo, nel 1951, terminato l’anno sabbatico all’Accademia Americana di Roma; poi, nel 1968, l’incarico affidatogli dallo storico dell’arte Giuseppe Mazzariol; infine la conclusione amara, quando per cause concatenate, nel 1972, sparì l’impegno di enti e istituzioni per la costruzione del Palazzo, sia nella prima soluzione, ai Giardini della Biennale, sia nella seconda, all’Arsenale.

Quello di Kahn fu uno dei progetti «possibili» che come altri, a Venezia, non videro mai la luce: furono già passati in rassegna da Lionello Puppi e Giandomenico Romanelli in una mostra del 1985. Tra i più famosi ricordiamo la Casa Masieri di Wright sul Canal Grande e l’ospedale di Le Corbusier nel sestiere di Cannaregio. L’infausto destino del moderno a Venezia ha avuto poi un seguito, e così sono rimasti sulla carta, oltre alle opere dei maestri, altri «palazzi» – come quelli del Cinema, prima di Moneo (1991), poi di 5+1AA-Ricciotti (2004) – e lo scintillante Venice Gateway all’aeroporto di Gehry (2013). È un bene che l’esposizione ticinese abbia illustrato i fallimenti precedenti al progetto kahniano perché in tutte le vicende giocò un ruolo influente sempre Mazzariol. Lo storico veneziano distinse però l’«atto etico» di Kahn, sia rispetto a Wright, il quale rinunciò a «far pesare una forma in qualche modo precostituita», sia rispetto a Le Corbusier, che con la sua piastra ospedaliera in orizzontale dimostrò un assoluto «rispetto morale» verso la morfologia urbana veneziana. In che cosa consistesse l’«eticità» della monumentale grande sala riunioni di Kahn, configurata come un oblungo anfiteatro centrale sospeso su pilastri, è una questione complessa e si allaccia alla sua idea di architettura fondata sul primato del saper fare con mezzi e materiali appropriati, e distaccata nei confronti dei programmi funzionali e delle conoscenze storiche. «Quello che mi incoraggia – dirà nel corso di una lezione tenuta dall’alto del tetto di Palazzo Ducale – è che l’uomo che ha costruito tutto questo non ha neanche pensato alla Storia, ma ha eseguito semplicemente il lavoro e l’ha costruito».

Ora quanto la sua proverbiale oratoria dissimuli l’effettiva conoscenza dell’architettura del passato, è evidente già dalle viste prospettiche di Piazza San Marco, disegnate durante la prima visita e collocate all’inizio del percorso espositivo qui a Mendrisio, davanti ai suoi pastelli colorati della Cà d’Oro e della Basilica di San Marco. Inoltre, è chiaro che è stata la suggestione di Palazzo Ducale – come attestano uno schizzo e la testimonianza del suo interprete, lo scrittore Renzo Salvadori – ad avergli ispirato il «grande contenitore», analogo per certi versi a quello medievale sul profilo della stessa riva. Il confronto tra le due architetture l’ha evidenziato con acume Barizza nella sua tesi di dottorato (La forma tangibile, Franco Angeli, 2017) e ora viene riproposto nel catalogo (Mendrisio Academy Press e Silvana Editoriale). D’altronde la «nostalgia per il Medioevo» è l’aspetto romantico della personalità di Kahn, che, come scrisse Enzo Frateili nell’olivettiana «Zodiac» (8, 1960), convive con il carattere classico definito dalla «solidità e dalla simmetria delle sue forme». Al mondo antico (e orientale) rinvia non solo il parallelepipedo del Centro Congressi: «moderna Agorà» con la sua facciata finestrata in pietra bianca e tre cupole affioranti dal tetto, ma anche la Stoà che gli sta poco distante.

L’edificio, destinato alla Biennale, condivide con il Palazzo la stessa ieratica monumentalità, è collegato alla prima soluzione e si compone di due volumi prospicienti i lati di una piazza sull’asse che va dall’ingresso ai Giardini a una nuova darsena. Se il Palazzo-Agorà è immaginato da Kahn come lo spazio dell’«incontro», del «pensiero» e dell’«esistenza», il Padiglione-Stoà è il luogo della «presenza» (artistica) e dell’immanente. Accade così che a poca distanza l’una dall’altra, le due necessità – del confronto e dell’evento – si combinino insieme per generare «nuove espressioni di vita comunitaria» (Mazzariol).

Tuttavia per Kahn, come abbiamo accennato, l’architettura vive anche «senza uno scopo», la sua grandezza non sta nel soddisfare regole e bisogni. Piuttosto chi ne è l’autore deve possedere, come spiega in modo sempre limpido in catalogo Werner Oechslin, «l’audacia, il coraggio e la facoltà immaginativa»: proprietà che sono fuori dal tempo e dalle istituzioni. È pur vero che occorre fare i conti con i principi della tecnica delle costruzioni, ma come illustra Neri nel suo saggio, per questi problemi c’è l’ingegnere August E. Komendant, figura decisiva perché il Palazzo divenga, con la sua forma di arco a rovescio teso tra piloni laterali, «l’archetipo moderno di un grande ponte abitato».

A Venezia, dove la scala umana è intatta e l’antico sovrasta, Kahn sognò di affermare quanto già attrasse il suo amato Boullée: la vitale visione metastorica, trascendente ed eterna, dell’architettura. Il suo desiderio non si realizzò, ma in Italia Kahn fece proseliti divenendo subito, come osserva giustamente Oechslin, un «modello, se non in un idolo»: di lì a poco mescolato tra le fantasie postmodernism e le abilità hi-tech, in un eccentrico gioco senza fine.