Kae Tempest è di Brockley, nella circoscrizione di Lewisham, Londra Sud, un quartiere pieno di case vittoriane prediletto dagli artisti fin dagli anni ‘60 (il Goldsmiths College è poco distante) e con una ricca tradizione musicale, dal punk al lover’s rock al grime. Tempest ha un rapporto molto stretto con il suo quartiere: «Lewisham è una parte fondamentale della mia musica, delle mie posizioni politiche e della mia visione del mondo. Se non fossi di Lewisham non credo che sarei l’artista che sono».

La copertina di «The line is a curve»

TEMPEST scrive e fa musica da più di vent’anni. I suoi primi due dischi Everybody Down (2014) e Let Them Eat Chaos (2017) sono stati candidati al Mercury Prize; il terzo, The Book of Traps and Lessons (2019), è finito nella shortlist dell’Ivor Novello nella categoria miglior album. Ha scritto un romanzo (The Bricks That Built The Houses, 2017) e sei raccolte di poesie, di cui quattro tradotte in italiano da Riccardo Duranti per E/O, come il saggio Connessioni appena uscito. Scrive anche per il teatro: Paradise del 2021 ha debuttato al National Theatre di Londra. Nell’agosto del 2020 con un post sui profili social ha comunicato la sua identità di genere come persona trans non-binaria, da Kate il nome è diventato Kae e ha adottato i pronomi they/them (loro).
Il nuovo album The Line Is A Curve, uscito all’inizio di aprile, è il primo con il nuovo nome e con il suo ritratto in copertina. Tempest è una di quelle persone a cui non piace essere fotografate, ma per questo disco ha fatto un’eccezione: «Wolfgang Tillmans è stato molto gentile e per niente intimidatorio durante il servizio fotografico. È un artista straordinario, non riuscivo a credere che stessimo lavorando insieme. Vedere la foto è stato emozionante perché non avevo mai avuto un’esperienza simile, è un ritratto autentico e sincero. Non avevo mai voluto comparire in copertina prima d’ora, ma in The Line Is A Curve invito le persone a entrare nel disco, voglio che ascoltino, mi interessa comunicare con gli altri. È un atto di gentilezza accoglierli con il proprio volto, è come chiedere di entrare nella mia testa e la porta d’ingresso sono gli occhi e il viso».
The Line Is A Curve è un disco sul lasciar andare e sull’arrendersi. A cosa, Kae lo spiega con la chiarezza di una persona per cui le parole sono una ragione di vita. «L’idea dell’album è che possiamo trasformare le pressioni della vita quotidiana da fardelli e forze oppressive a nuove forme di energia, e migliorare la nostra resilienza. Viviamo nello stordimento provocato dall’inseguire una vita confortevole e dal desiderio di avere sempre di più, dalle pressioni della città, dei tempi, del mantenere le relazioni, combattere le malattie, le dipendenze, i disagi mentali, la vacuità delle nostre esistenze online. Maggiore è la pressione subita, maggiore sarà la possibilità di liberazione. È un disco sulla perseveranza: lasciar andare significa arrendersi all’idea che come esseri umani procediamo lungo una linea curva».

IN «PRIORITY BOREDOM» (noia prioritaria, gioco di parole sul priority boarding dei voli low cost) dice: «Nuoti e speri di affogare. Giustificato dalla tua tribù, diventi vivo online», e in No Prizes: «Cosa sono i tuoi sogni quando diventano fantasmi nelle orecchie e ti dicono cose che non vuoi sentire? Ad esempio che è troppo tardi, che hai perso l’occasione». No Prizes è uno dei brani migliori dell’album: poche note di piano e chitarra, punteggiature di beat, una base melodica scarna ma struggente che si sposa con la disillusione del testo; il cantato di Lianne La Havas, la voce della speranza ostinata, fa da contraltare soul alle parole precise, affilate, senza sconti eppure empatiche di Tempest, che riesce a rendere vivido un universo con elenchi di sostantivi e aggettivi, senza verbi, come nello scenario desolato di Salt Coast, scolpito con monosillabi secchi – «Salt coast. Foul wind. Old ghosts. Scrap tin. Leaves. Rain. Leaves. Rain» – da cui emergono i protagonisti in lotta con l’esistenza, ma decisi a sopravvivere: «Ti vedo mentre togli la ghiaia dalle tue Air Max. Così bello. Così caotico. Così concreto. Casa. Cemento e terriccio. Polvere di mattone e prestiti. Un posto tutto tuo da pagare per il resto della vita». Sono personaggi in cerca di liberazione dal giogo culturale e sociale delle generazioni precedenti, dalla «tirannia e l’odio di Britannia Rules The Waves», un mondo che non corrisponde più nei contorni e nell’essenza alle loro esigenze: «Il famoso ritornello della loro gloria e la tua vergogna. Vuoi solo continuare a muoverti, l’energia dentro di te trabocca e ti dà problemi. Niente è più lo stesso».
Il disco avanza verso uno scioglimento, un’apertura che passa per l’autoconsapevolezza: chi si è, che cosa si vuole, la presa di coscienza del proprio desiderio, che coincide con quello che Massimo Recalcati definisce «capacità di lavoro, di impresa, di progetto, di slancio, di creatività, di invenzione, di amore, di scambio, di apertura, di generazione». In These Are The Days, con una chitarra alla Pink Floyd di Breathe, declama: «Questi sono i giorni che vedevo in sogno, questi sono i giorni che mi dicevo mi sarebbero arrivati, i giorni in cui volevo credere… Questi sono i giorni che avrei potuto usare quando i giorni erano i giorni che passavano lenti. E quando non ci saranno più, mi ricorderò di questi giorni come i giorni in cui avevo un obiettivo».

LE CRONACHE di scenari grigi, depositi di rottami, stazioni ferroviarie sotto la pioggia, lasciano spazio a un’atmosfera più leggera man mano che ci si lascia andare. Alla voce di Kae si aggiunge quella degli amici che ammira e a cui vuole bene, e il senso di comunità sconfigge l’isolamento: «More Pressure, la penultima canzone, è l’essenza dell’intero disco e l’epifania che porta a Grace, una preghiera, una resa. Ma una volta arrivati alla fine, si ritorna all’inizio perché non importa quanto riusciamo a essere consapevoli della vita e del posto che in essa occupiamo, il mattino dopo ci svegliamo sempre alla casella di partenza. La vita è un’operazione quotidiana per aumentare la nostra resilienza, coltivare un’accettazione più profonda e liberarci di ciò che ci assilla». Le parole di Kae, così chiare e urgenti, da dove vengono? «La maggior parte delle volte non è un impeto di ispirazione, ma un lavoro molto duro. È come portare acqua su per una salita, non è divertente ma allo stesso tempo lo è perché è ciò che amo fare. Le mie performance sono come un recital di pianoforte o come suonare il sax: prendo decisioni come se suonassi uno strumento. Non si tratta solo di tecnica. Lascio entrare le parole nella mia memoria corporea e poi cerco di defilarmi. La parte di me che è performer prende il sopravvento su quella che scrive, perché come performer comprendo il linguaggio in modo diverso da quando scrivo. Una volta che mi immergo nelle parole e le sento arrivare, non so più da dove vengono e dove vanno, non le controllo più e cerco solo di dar loro spazio, di farle uscire, di liberarle».
L’atto di creare è l’atto di fallire, ha detto in un’intervista. Allora perché continua a farlo? «Perché per me non esiste altro nella vita. La creatività è tutto. Non importa se è un fallimento continuo, non si crea pensando al successo, a volte è un compito davvero ingrato. Per me è una fissazione, è eccitante come essere innamorati, è la mia ragione di vita, non riesco a pensare a un altro motivo. Provo una immensa gratitudine: senza questa passione per me la vita non avrebbe senso».