Succedeva a Torino, negli anni in cui gli striscioni dei cortei gridavano ‘Studenti e operai uniti nella lotta’. Succedeva che sciolto un picchetto davanti ai cancelli di una fabbrica, durante l’occupazione congiunta di una scuola, dopo ore e ore di volantini al ciclostile, dopo un’assemblea, un gruppetto di operai e studenti decidesse di concedersi un bicchiere di vino al tavolo di una piola, così si chiamano i bar trattoria piemontesi, oggi quasi estinti. Quegli anni erano cominciati il 3 luglio 1969, con la rivolta di corso Traiano, quando il corteo formatosi davanti al cancello 2 della Fiat Mirafiori era stato brutalmente caricato dalla polizia: 29 arresti, 200 fermi, centinaia di feriti tra i manifestanti. Quegli anni, un decennio, rappresenteranno uno dei periodi più drammatici nella storia del movimento operaio italiano, attraversato dal terrorismo e chiuso a Torino il 14 ottobre del 1980 dalla Marcia dei Quarantamila: impiegati e quadri Fiat che chiedevano la fine di trentacinque giorni di picchettaggi per rientrare nella ‘loro’ fabbrica. Al tavolo della piola si discuteva di politica, di sfruttamento, di padroni.

E a Torino, il padrone era Gianni Agnelli, nemico su tutti i fronti salvo uno. Lo scopriva lo studente, magari tifoso, che portava la Juventus come esempio di arroganza capitalista nello sport. «Che c… c’entra la Juventus?», lo interrompeva brusco l’operaio, mettendo fine alla discussione. Era lo stesso operaio che aveva gridato insieme ai suoi compagni di lavoro ‘Agnelli e Pirelli ladri gemelli’. Una contraddizione? Potrebbe sembrarlo, guardando alle origini della tifoseria bianconera, inizialmente costituita da esponenti della buonissima borghesia sabauda. Il passaggio di proprietà del club agli Agnelli nel 1923 e i cinque scudetti vinti dalla Juventus tra il 1930 e il 1935 gettarono tuttavia il seme di un tifo capace di superare i confini regionali e sociali per diventare l’unico a carattere veramente nazionale.

Primi in Italia a organizzarsi per seguire la squadra in trasferta, i tifosi conquistarono infatti sempre più proseliti lungo la penisola. Arriveranno a raggiungere, già allora, il doppio della cifra messa insieme da tutti gli altri club. Il Miracolo economico, il cosiddetto Boom, accentua il fenomeno migratorio dal Meridione verso Torino e le grandi fabbriche del Nord, iniziato negli anni ’30. Saranno proprio gli emigrati, gli operai della Fiat e dell’indotto, a far crescere in modo esponenziale il numero di italiani che ‘tengono per la Juventus’, a cancellarne definitivamente il carattere campanilistico e le distanze di classe. Oggi a Nord Est e Nord Ovest il 25 e il 32 per cento degli appassionati di calcio tifa Juve; al Centro la percentuale sfiora il 29 e al Sud il 30, per un totale, secondo un sondaggio pubblicato dal Corriere dello Sport nel 2016, di circa 12 milioni. Un italiano su cinque.

Risale al 1974 la formazione e la presenza nella Curva Sud dello Stadio Comunale di Torino (poi Curva Scirea) dei primi gruppi Ultras: Autonomia Bianconera, Globetrotters, Venceremos. Due anni dopo nasce Fossa dei Campioni; nel ’77 arrivano I Fighters, capitanati dall’indimenticato Beppe Rossi, e i Phanthers. Ad accomunarli, l’orientamento politico a sinistra. La destra e la violenza irrompono nel 1981 con Gioventù Bianconera; nel 1985 con i Viking, formatisi a Milano; nel 1987 con i Drughi. Viking e Drughi, insieme ai gruppi Tradizione- Antichi Valori e Quelli… di via Filaldelfia, diventeranno protagonisti dell’inchiesta Last Banner, condotta dalla Digos nel 2019 per associazione a delinquere, estorsione aggravata, autoriciclaggio e violenza privata nei confronti della società juventina. Tra il 1995 e il 2001 altri gruppi incrementano le frange della destra con il Fronte Bianconero, gli Arditi, gli Irriducibili (provenienti dalle Vallette, storico quartiere della Torino operaia), Noi Soli, Vecchia Guardia.

Ma torniamo al tifoso, e a quello, per così dire, contemporaneo. Premesso che il sito fiorentino Labaro Viola (labaroviola.com) è senza dubbio di parte, vale però prendere in considerazione la prima delle dieci tipologie in cui un articolo di Marco Fiocchi suddivide, appunto, chi tifa bianconero: il Negazionista «La sua missione nella vita è dimostrare che la Juventus è molto più vittima che carnefice…. Come qualcuno accenna ai ‘presunti furti’ della Juve, si scatena». Il Negazionista ci porta alla Juventus del Terzo Millennio, quella di cui avete appena letto nella pagina accanto. Una squadra, una realtà imprenditoriale, divenuta così potente ed egemone nel calcio da non tollerare accuse, per lei assimilabili al delitto di lesa maestà. Se quelle ‘consolidate’, che riguardano rigori concessi con troppo facilità e tempi supplementari allungati all’eccesso possono risultare opinabili, altre concedono assai meno dubbi. Difficile, citando fatti recenti, non vedere l’ombra del favoritismo nel ridicolo esame di italiano sostenuto da Luis Suarez dell’Atletico Madrid, così da poter passare in forza all’attacco bianconero.

Difficile non accusare di comportamento antisportivo la squadra che, pur di ottenere i tre punti, entra sul campo dell’Allianz Stadium da sola, mentre il Napoli è costretto dalla pandemia a rimanere a casa. Tutto respinto al mittente, per voce del tifoso, e soprattutto del presidente Andrea Agnelli. Manca ancora un tassello nella breve, incompleta storia della Juventus tracciata sin qui, ed è il suo rapporto con una città, Torino, ancorata a un’inossidabile nostalgia del passato. Dal ‘furto’ del ruolo di capitale in poi, il capoluogo piemontese non manca occasione per elencare ciò che a suo dire gli è stato ingiustamente sottratto. Tanto per lamentarsi, il cinema, nato a Torino, è finito a Roma come la Rai; la moda, altra creatura nostrana, è andata a Milano, la Grande Nemica, che pochi mesi fa è riuscita a prendersi le Olimpiadi invernali del 2026, per poco non si accaparrava pure il Salone del Libro, e si è appropriata di una parte della storica rassegna Settembre Musica, trasformata in MiTo. A mantenere vivo l’orgoglio sabaudo erano rimasti Gianni Agnelli e la Fiat, ma l’Avvocato è passato a miglior (?) vita il 24 gennaio 2003, tra lo sgomento dei torinesi che, due giorni dopo, a migliaia, si sono messi in fila per omaggiare l’illustre salma. Quanto alla Fiat, è ormai pallido ricordo.

La Juve no, lei c’è sempre. Insuperabile, invincibile, intoccabile. La Juve dei 36 scudetti, delle 13 Coppa Italia, delle 10 Coppe internazionali; la Juve di Boniperti e Bettega, Del Piero e Dybala, Scirea e Ronaldo; la Juve che porta Torino sulla ribalta planetaria.

E il Toro? Non gli spetterebbe almeno un pezzetto del cuore cittadino? Gli spetta eccome, scrive il sito Juventibus. Con le dovute differenze. «Se il Toro è la Torino tradizionale, elegante e austera, capoluogo del Piemonte, la Juve è la Torino città d’Europa che si sente ancora capitale, che non accetta di essere periferia e guarda a testa alta il resto del mondo… La Juve è un gianduiotto, un Martini o una mostra d’arte contemporanea; il Toro il Museo del Risorgimento, una bignola o un bicchiere di Punt e Mes… Il Toro è ira e invidia, la Juve avidità e lussuria». Già, proprio così.