Philippe Jullian nel 1949, a trent’anni, in una foto di Carl Van Vechten

 

La riproposta di uno scrittore delizioso ma poco noto quale Philippe Jullian, ancorché avvenga attraverso la ristampa di uno fra i suoi lavori meno memorabili (D’Annunzio L’esteta eroe, Lindau, pp. 386, euro 24,00; «prima» italiana, Tattilo Editrice, 1974), non può che rallegrare. In Italia infatti lo scrittore francese non conta molti conoscitori. Certo, le sue monografie su Wilde o su Montesquiou saranno state consultate dagli specialisti, così come il suo saggio Esthètes et magiciens, che resta a tutt’oggi uno dei migliori studi sull’argomento, dubito, tuttavia, che l’attitudine del loro autore a dissimulare la scienza dietro il paravento della conversazione brillante li abbia resi particolarmente congeniali a questo tipo di pubblico. Alla restante parte dei lettori, che non è poi tanto larga in Italia, Jullian rimane pressoché ignoto oggi non meno di ieri.
Di traduzioni dei suoi libri, del resto, se ne sono viste così poche nel nostro paese che quelle non molte somigliano a solitarie ginestre in un deserto d’indifferenza. Il primo suo libro ad apparire in lingua italiana fu La fuite en Egypte, una fantasia barocca, che per i suoi eccessi ricorda i Noronsoff di Lorrain, pubblicata nel 1968 da Mariotti nella «Biblioteca Blu» di Franco Maria Ricci con il titolo di Madame. A questa seguirono Oscar Wilde (Einaudi, 1972; poi Castelvecchi, 2014), appunto D’Annunzio, Per chi suona la cloche (con Angus Wilson, Adelphi, 1974), Robert de Montesquiou (Novecento, 1993) e, in tempi più recenti, Il dizionario dello snobismo (Lepre, 2008): sei libri in più di cinquant’anni. Vien da pensare che le opere di Jullian, per essere gustate, richiedano una società colta, avvezza alla causerie che da noi è sempre stata piuttosto rarefatta. In Francia e in Inghilterra le cose andarono differentemente e Jullian, fra gli anni cinquanta e settanta, fu ricercatissimo dai salotti che sapeva deliziare con le sue arguzie mordaci.
Quest’uomo piccolo e delicato – «un uccelletto», ricorda Alvar González-Palacios – era nato a Bordeaux nel 1919 da una famiglia della buona borghesia protestante. Della nonna materna diceva di avere ereditato l’amore per i bei mobili e per i begli uomini; una frase non troppo diversa ma meno maliziosa era stata pronunciata nel secolo precedente da Hugo von Hofmannsthal. Abbiamo una foto dello scrittore a vent’anni, il tempo in cui a Parigi faceva le sue prime prove mondane: è in costume d’Amleto, assieme all’amica Élisabeth Quinton con la quale intrattenne, per un certo periodo, una sorta di platonico marivaudage; ma un sontuoso turbante piumato conferisce al suo principe di Danimarca la levantina grazia di un Sindbad o di un Califfo di Baghdad. Una boutade in maschera che nel caso di Jullian è quasi un ritratto.
Il suo biografo, Ghislain de Diesbach, ce lo descrive più volte intento a dissimulare la sua identità, ora imitando la grafia altrui, ora imbastendo ingegnosi travestimenti allo scopo di portare a buon fine delle burle che non sarebbero sembrate fuori posto nella società galante del XVIII secolo. Tuttavia, questo particolarissimo talento sarebbe forse rimasto niente più che un passatempo, se un giorno, invitato dall’abate Lacaze a tenere una conferenza al suo circolo, Jullian non avesse inventato l’esistenza di una scrittrice inglese, a suo dire ingiustamente sconosciuta, Sybil Hardcastle, la cui vita immaginaria gli permise di evocare l’ambiente culturale anglosassone dai preraffaelliti a Huxley: era la prima volta che il gioco si mutava in letteratura e fu un successo.
Molti lavori di Jullian sono geniali pastiche. In Les Morot-Chandonneur ou une grande famille décrite de Stendhal à Marcel Aymé, peint d’Ingres et Picasso (scritto nel 1955 insieme a Bernard Minoret a partire da alcuni articoli già apparsi su «La Parisienne»), la storia di una ipotetica famiglia, i Morot-Chandonneur, è narrata attraverso una serie di sapide parodie delle quali fanno le spese i più grandi artisti e letterati del XIX e del XX secolo. Nello stesso tono è Les Styles (1961), fra le sue cose più incantevoli: si tratta di un album composto di tante vignette rappresentanti scene d’invenzione, ciascuna corrispondente a una fase del gusto. In questi come in altri libri risalta quel particolare talento di Jullian nel trasfigurare l’erudizione storica in féeries. Les Styles sembra sotto molti riguardi una prazziana Filosofia dell’arredamento riscritta da un fantasista che lo rende tanto affine per sensibilità poetica a Marcel Schwob. Se si guarda, invece, allo stile coupé, vien fatto di pensare piuttosto a Voltaire, al quale non sarebbe dispiaciuta questa definizione lapidaria dell’egittomania settecentesca: «L’Egitto è la Cina del neoclassicismo»; o questa spiritosa considerazione sul trionfo del gusto neoclassico sopra le tortuose follie rocaille: «Capita con gli stili quel che avviene coi regimi, ci si rivolge dapprincipio ai rimedi particolari, la cineseria o la turcheria, poi ci si avvede che nulla vale tanto quanto il riposo».
Non si può pensare, guardando i suoi disegni, che l’arguzia di Jullian si limitasse all’antiquariato. Essi descrivono l’high life del tempo in sagaci caricature, non prive d’intuizioni psicologiche. La fresca facilità del segno richiama talvolta Max Beerbohm, al quale l’accomunerebbe anche la doppia vocazione di caricaturista e di scrittore faceto, ma laddove il tratto dell’inglese è carezzevole e delicato, quello di Jullian è nervoso, coupé, appunto. Nei suoi disegni c’è in genere quella stessa miscela di arguzia e psicologia che si rivela nei tanti motti di spirito che possono incontrarsi aprendo a una pagina qualsiasi il suo Les collectionneurs (1966): «Queste collezioni servono da giustificazioni per le migliaia di Bouvards et Pécuchets, esse mettono le ali a delle larve», per esempio. Libri come Les collectionneurs, o come Café-Society (1962), o Le dictionnaire du snobisme (1958), sono anzitutto descrizioni di una società, nelle quali si tradisce in Jullian l’ammiratore di Balzac: una Comédie humaine raccontata alla maniera di Evelyn Waugh.
L’arte stessa interessò Jullian principalmente sotto il profilo della storia del gusto, cioè ancora dell’ambiente e del costume; tant’è che le sue biografie di scrittori e personaggi fin de siècle, se possono cedere ad altre in termini d’acribia documentaria, nell’evocazione brillante di un mondo hanno pochi termini di paragone. La sensibilità per i mobili, quali espressioni di una particolare maniera di vivere, era anzi così spiccata in lui da portarlo a scrivere un testo come Mémoire d’une bergère (1959), dove l’epopea di una casata è narrata attraverso la sorte di uno dei sui arredi. La bergère del titolo è, infatti, una delle due poltrone realizzate dal celebre ebanista Tilliard e acquistate da Luigi XV per le sue due figlie, Adelaide e Victoire. I due mobili seguiranno le loro proprietarie, partecipando delle grandezze e delle miserie delle rispettive famiglie: la prima trascorrerà una tranquilla esistenza in Polonia, mentre l’altra, al termine di rocamboleschi accadimenti, finirà inghiottita dalle acque, dopo essere stata sottratta all’armatore Guatrez dai suoi antichi proprietari.
Nel libro un argomento storico, l’evoluzione della società francese dal XVIII secolo al 1950, è trattato con stile arioso e piccante, che fa pensare a epoche nelle quali la serietà dell’argomento non forniva ancora agli uomini di scienza una valida giustificazione per essere seccanti. Queste qualità facevano di Jullian un uomo di spirito graditissimo ai salotti. Ciò non vuol dire ch’egli fosse un fatuo o un superficiale. González-Palacios, che lo conobbe, ricorda come alle volte sembrasse lievemente a disagio. Anche la frivolezza ha una gravità, sebbene il suo peso sia costituito da un chilo di piume invece che, come nell’insidioso indovinello, da un chilo di piombo.
Jullian era un uomo penetrante e sensibile che un giorno decise di porre fine alla serie ininterrotta di disgrazie che lo avevano colpito con un’altra disgrazia. Il dettaglio della cravatta di seta con la quale si impiccò conferisce alla sua morte qualcosa ancora una volta di settecentesco, ricordando quella di Jan Potocki. «Creature del genere – ha scritto González-Palacios in un profilo uscito nel meraviglioso Persona e maschera (Archinto, 2014) – sono sempre esistite e forse sempre esisteranno ma, se il loro itinerario terreno è del tutto congeniale a certi periodi, esso diventa difficile, per non dire anacronistico, in altre circostanze storiche come quelle che si verificavano nell’ultimo dopoguerra». Forse invece di rileggere sempre gli stessi scrittori, sotto il pretesto che essi sono attuali, sarebbe tempo di riscoprire artisti impeccabili come Jullian che non ebbero, nemmeno da vivi, la pretesa di esserlo.