Due anni dopo Educacão Sentimental, Julio Bressane ritorna al Festival di Locarno, ma questa volta fuori concorso e con quattro film, un progetto produttivo dal titolo complessivo Tela Brilhadora che ha realizzato con la complicità di tre giovani registi già suoi collaboratori. Oltre a Garoto dello stesso Bressane (proiezioni il 12 e 13 agosto), ne fanno parte O Prefeito di Bruno Safadi (14 e 15), Origem do Mundo di Moa Batsow (12 e 13) e O Espelho di Rodrigo Lima (14 e 15). Impossibile non sentire in parte riecheggiare a 45 anni di distanza il soffio e le idee della Bel Air in questi film che, come dice Bressane, «sono incarnati nello spirito del produttore-regista, antico spirito del cinema fin dalla sua nascita». «Tela brilhadora è un esperimento, un’anamnesi cinematografica, che strappa e divide il soggetto autore, facendolo transitare da un passaggio a un altro passaggio, da un frammento a un altro frammento, da un margine a un altro margine: un altro margine che lo conduce al dislimite». Bressane ha risposto alle suggestioni che gli abbiamo proposto con risposte scritte che qui pubblichiamo.

Il titolo «Tela brilhadora» è praticamente intraducibile. Ce ne puoi spiegare il senso?

Tela brilhadora? Simile a memoria involontaria, una lettura di questo verso ci porta a un breve excursus nella lingua portoghese. Antonio Moraes e Silva pubblicò nel 1790 un grande dizionario della lingua portoghese in due volumi. Posseggo l’edizione del 1813 in due volumi. Qui incontriamo «brilhador, brilhadora» (sostantivo) = che brilla. Es. «céu brilhador», «tela brilhadora» – Eneide, libro 4, 60. Il primo traduttore portoghese dell’Eneide fu l’erudito del XVII secolo João Franco Barreto (Eneida Portuguesa-1674), autore di Micrologia camoniana (1660). Tradusse Virgilio attraverso Camoões, «tela brilahadora» è quasi un appello al poeta delle Lusiadi. Nel secolo XIX, nel 1850, il brasiliano Odorico Mendes tradusse, con energia di alto voltaggio, Omero (l’Odissea e l’Iliade) e Virgilio (l’Eneide e le Egloghe) e inventò una lingua all’interno della lingua portoghese. Il verso di Virgilio è il seguente: «et tenui telas discreverat auro» Odorico tradusse: «Áurea tela a mais fina entrelaçada» João Franco Barreto tradusse «áurea tela» con due sostantivi: «Tela brilhadora»…

Garoto2

In ambedue le traduzioni c’è l’idea di approssimarsi al linguaggio della grammatica, per poi, e solo poi, allontanarsene. Tradizione di un nazionalismo cosmopolita, nazionalismo perché ancorato alla lingua portoghese, cosmopolita perché aperto a tutte le mitologie… Vediamo come la traduzione di un verso, una nuova sonorità, un andare e venire attraverso la musica, attraverso la lingua lirica, estende la plasticità del significante. Nota curiosa: Nell’anno 1655, il maggiore artista della lingua portoghese, l’oratore sacro padre Antonio Vieira, scrive divinamente nel sublime e sconcertante Sermão da Sexagésima: «Già che parlo contro stili moderni, voglio allegare per me lo stile dei più antico predicatore che ci sia stato nel Mondo. E quale fu? Il più antico predicatore che ci sia stato nel mondo fu il cielo, dice Davide. Supposto che il Cielo sia predicatore, deve avere sermoni e avere parole. Si, le possiede, dice lo stesso Davide, possiede parole e possiede sermoni; e in più molto ben uditi. E quali sono questi sermoni e queste parole del Cielo? Le parole sono le stelle, i sermoni sono la composizione, l’ordine, l’armonia e il loro corso. Uno e altro è seminare. La terra seminata di grano, il Cielo seminato di stelle. Il pregare deve essere come chi semina, e non come chi piastrella o incastra azulejos. Ordinato, ma come le stelle.»

Un tuo primo progetto a partire da Bill Harrigan, assassino disinteressato (Storia generale dell’infamia), la versione di Borges del mito di Billy the Kid, risale a molti anni fa, e allora tu avesti anche delle conversazioni con Borges. È un progetto che hai portato con te a lungo, puoi raccontarci come si è venuto precisando da allora fino a O garoto?

Ho letto il racconto di Borges ancora negli anni Settanta. Mi affascinò fin dal primo momento in cui lo scorsi davanti agli occhi. Entrai in contatto con Borges per telefono e gli parlai della mia volontà di filmare la versione innovatrice e devastatrice che lui aveva fatto del mito dell’assassino disinteressato Bill Harrigan. Fu un’affrettato, irriflesso adattamento che fortunatamente non filmai. Una lettura più lenta mi fece aprire il testo e seguire, nella mitologia della collera, il mito ancestrale dell’omicidio. Un’opera d’arte è la possibilità di una reincarnazione, mi avvicinai alla contemporaneità del mito attraverso la via archeologica, preistorica. Il mito nasce dall’insufficienza del linguaggio di fronte al soprannaturale.

La figura del «garoto» ricorre in forme diverse nei tuoi film (Cara a cara, Matou a família e foi ao cinema, Miramar, Educação sentimental). Non so se si può considerare un biografema nel senso di Barthes (come hai detto a proposito di Rua Aperana), certo sembra intrecciata al tuo immaginario personale.

I disegni infantili appesi alla parete di una stanza, primi tratti e schizzi, che appaiono all’inizio del film, il ragazzo che tiene in mano un punto di luce, una lampada che è come un aprirsi e chiudersi di palpebre, «flicks», un calembour visivo della scritta iniziale «Garoto». Disegno infantile che fluisce nei disegni e segni rupestri dell’infanzia dell’uomo, incisi nelle pareti di un mondo perduto…
L’inizio della vita, i primi anni, trascorsi nel bosco e nella foresta, la duplicazione del soggetto parlante davanti allo stupore nell’indagare una carta geografica delle Americhe. La pulsione ancestrale che si moltiplica, l’assassinio, che disorienterà l’esistenza e lo espellerà dalla vita e dalla redenzione, è raffigurato in ellisse totale.
L’omicidio, profonda natura umana, conduce all’aridità, alla secchezza, all’essere schiacciati.
Il film segue e persegue la sonorità del mito con ellissi e deviazioni, assorto nella durata e nella considerazione dell’essenziale, come un fiore sbocciato d’improvviso nel deserto.

O espelho

La «costruzione del paesaggio» ha assunto sempre più nei tuoi film una dimensione tanto fisica, materica, quanto lirica e simbolica: il cosmo e i suoi elementi. Il luogo con i suoi segni e le sue stratificazioni è anche potente riaffiorare del Brasile preistorico, dell’America precolombiana che tanto ti interessa. Dopo l’inizio di cui hai parlato, con l’apparizione dei disegni infantili, il film si struttura in due parti: prima la foresta, con la formazione del ragazzo, e poi – dopo il détour della visita al personaggio femminile interpretato da Josie Antello, e il delitto in ellissi – la fuga nel deserto. Puoi dirci in quali luoghi hai girato il film ?

Un geografo e scrittore francese del secolo XIX, Élisée Reclus, scriveva che «La geografia è la storia nello spazio, la storia è la geografia nel tempo». Il deserto che il destino cosmico impone, metafora della creazione, è il villaggio perso e ritrovato, aura preistorica che avvicina all’adesso il remoto, il distante. Garoto è stato filmato in due paesaggi distinti ma complementari. Il primo nella foresta di Tijuca a Rio do Janiro, e la seconda nel sertão di Cariri a Cabrobó, nella Paraíba dove si trova la Pedra do Pai Mateus, e lì Moa Batsow ha filmato parte del suo film, Origem do Mundo. La scena dell’omicidio brutale, rappresentata fuori-campo, frattura la tirannia della narrativa automatizzata, provoca un vortice seguito dalla fuga nella disperazione attraverso la sparizione nell’aridità e nella secchezza… Scompagina il divenire, sostituisce un paesaggio con un altro paesaggio, mutamento che tortura l’esistenza, maledice l’anima…
Anima dannata e errante, disorientata nella vasta regione di alcune città pietrificate, caverne, grotte, sature di segni sparsi, in una sovrapposizione di forze oscure. I ritmi dei segni sconosciuti, le scene grafiche arcaiche disegnate sulle pareti dell’antico riparo protettore dalla paura dei cieli e della terra, servono per la coppia in fuga come intervalli, stazioni spaziali abitate da spettri sonnambuli in viaggio sul cammino verso il nulla… Una migrazione variata di segni, di dettagli insoliti, va a comporre sfumature di una immaginazione che ci trasporta in un altro mondo come una barca dei sogni… Itacoatiara, pietra con iscrizioni, calendario unico che sopravvive da giorni scomparsi, deviazione, inflessione pulsionale, energia mentale conservata di ciò che già non esiste più.
Sovrapposizione di segnali multilinguistici e di pensieri originali multipli, spazioso panorama dell’alimentazione culturale indigena in una cartografia dettagliata di fenomeni nel limite e dislimite di storia e preistoria. Città pietrificate che tornano a sorgere nel mare sconosciuto del passato con una architettura di forme arrotondate fatte dall’acqua e dal vento, dal vento costante dei millenni… Memoria e immaginazione raschiano le pietre di questo luogo. Il creatore ha bisogno di memoria, i sensi affrancati dalla schiavitù del presente si dirigono alla regione dei sogni, la conoscenza viene dal sogno, sogno trasportato dalla memoria a una realtà direttamente sentita.
L’Immaginazione sta sempre in attenzione all’eterno, a una vita immortale, che recupera, in ognuno, l’eredità dei fantasmi che ci cercano.
Suolo e pensiero, aderenza tra suolo e pensiero, mette in movimento una accidentata e addormentata superficie terrestre coperta da segni ancora non decifrati, campo di forze di qualcosa che dovrebbe restare nell’ombra, ma invece l’abbandona. Indizio di gran numero di migrazioni di simboli di diversi mondi…
La deambulazione apre il cammino di una topologia fantastica, penetrazione erotica in un luogo, vedere, vivere, sopravvivere di segni, che dopo lungo intervallo, rinascono in te e non ti abbandonano, immobilizzano il tempo e lo prolungano. Un avanzamento regolare e ripetuto di onde, un domicilio trapiantato del mistero, dello strano, dell’invisibile. Più che un riferimento al passato, questo territorio ha come oggetto la natura, tutta la natura cosmica. Percorso attraverso l’osso più antico dello scheletro geologico del nostro suolo.
Strana peregrinazione per la terra sacra delle percezioni iniziali dell’uomo, del sentimento dello scorrere del tempo, della divinazione del fenomeno vegetale. L’idea di dio come movimento perpetuo del correre delle stelle e degli astri esisteva nell’America antica, il movimento dell’universo, osservato dettagliatamente dalle sue piramidi e templi, era chiamato dio. L’essenziale è sempre l’invisibile. Affrancato dalla scorza del tempo, dall’abito del tempo, un frammento di vita, del nascere della vita, illumina la porta segreta dell’apertura verso lo sconosciuto. La spirale infinita disegna nella pietra la musica del mito. Curiosità: Bernardo Azevedo da Silva Ramos (1858-1931) con il suo libro monumentale Inscrições e Tradições da América Prehistórica (scritto tra il 1880 e il 1900, e pubblicato nel 1930) in 2 volumi, autentica stella guida «brilhadora» delle terre e selve brasiliane, creatore di una poetica che inventò una nuova relazione tra il disegno, la linea rupestre, e la parola sonora.
Intuì gli anagrammi del sertão, di cui si era persa memoria… Scrive, e bene, il geniale e disconosciuto Silva Ramos: «Una mescolanza di caratteri lineari e figurativi, incisi gli uni e dipinti gli altri, disposti capricciosamente dalla natura nelle vaste regioni del continente americano, queste iscrizioni, tra noi, nonostante l’esposizione a elementi distruttori e molteplici depredazioni, questi frammenti, per una felice fortuna, sono arrivati fino ad oggi permettendo di fare su di essi profittevoli investigazioni, e volontariamente ci lasciamo affascinare.»

In un’inquadratura del film riprendi «Le déjeuner sur l’herbe», con le suggestioni che immagino ti possano derivare da Warburg, una creazione-ricreazione (in un processo intersemiotico potenzialmente infinito) a partire dalla pittura che troviamo in questo e in altri tuoi film. 

Dejeuner sur l´herbe carioca, dislocamento e sopravvivenza transatlantica di una trasgressione di arte, abito e senso, ad assaporare in terra insolita una metamorfosi tropicale. (Raffaello, M.A. Raimondi, Hubert Damish, M. Foucault, P. Bourdieu, Picasso, T.J. Clark, M. Fried e soprattutto A. Warburg che ri-dimensionò l’arco di tempo e di spazio del quadro di Manet). Un pensatore sublime e sensibile al tempo ripete, ostinatamente, la sua istintiva intuizione: «Il valore supremo del tempo consiste nel liberare, insieme alle sensazioni passate, un frammento, dove stava sepolto e preservato, una visione della realtà assoluta di cui solo l’inconscio è capace. L’immaginazione vede il reale occulto attraverso l’abito e attraverso il mondo fenomenologico».

O prefeito

Anche la musica sembra acquistare un senso «spaziale». Hai messo il musicista stesso dentro l’inquadratura, si tratta di una musica concreta che viene creata artigianalmente da Guilhermo Vaz e che sembra a sua volta in rapporto con la «costruzione del paesaggio». Mentre musicali sono a loro volta vari elementi verbali o sonori del film, come al limite – in senso più traslato – lo stesso crawling mist (la nebbia tremolante), con il suo muoversi «dall’eterno all’eterno», di cui parla il personaggio interpretato da Josie Antello. C’è anche un riferimento a Lovecraft?

La musica sperimentale di Guilherme Vaz traduce una sonorità del mito lavorato da Borges: tumulto dei cavalli, colpi, rimbalzi, fischiare di pallottole, la ballata-narrativa comune ai western. Il maestro sta in scena mentre tocca uno strumenro di propria invenzione, una superficie sonora con diverse textures, manipolando le quali ottiene un suono che il musicista ha chiamato «realejo concreto» (organetto concreto). Il canto dei passeri, l’ascolto divino perduto nelle città, è la musica agonica del godimento, della sparizione.
The crawling mist, evocato dalla donna intellettuale, matura e curiosa delle relazioni e reazioni umane, è una citazione biblica della nebbia maledetta e mortale che invade il villaggio obbligando i suoi abitanti a rifugiarsi in casa per evitare il contagio del male…

E la canzone in spagnolo nella parte del deserto? 

La cantante è Elvira Rios, voce eminente della canzone latino americana, era una india messicana molto bella. È una voce classica dei boleri latini e ha un posto anche nella storia del western, perché è lei che in Ombre rosse col suo bel canto distrae l’attenzione dalla fuga notturna degli indiani. In Garoto canta il classico Flores negras nell’incisione originale del 1951, con la splendida orchestra di José Morand. Un altro incrocio con il Far West.

Dopo l’epifania della pellicola in Educação sentimental, qui hai girato in digitale. Facendo il film hai cambiato le tue idee (la pellicola come trasparenza, il digitale come opacità)? Il lavoro sul digitale, che molti considerano più facile e veloce, non potrebbe essere in realtà più difficile e complesso da dominare?

La materia prima della creazione è l’involontario. Dalla complessità della trasparenza alla complessità dell’opacità, dal passaggio dal negativo in pellicola al digitale, così come in ogni modificazione, c’è una grande conquista e una grande perdita. L’opacità nel luogo della trasparenza indica un mutamento di direzione, rinuncia di una soggettività, tuttavia l’opacità conquista una vasta espressione soggettiva del soggetto e dell’inconscio, quasi infinita, dico quasi infinita perché ogni sistema combinatorio comporta un esaurimento e una finitudine. Il digitale esige un altro stato sensibile, il tempo immediato delle sue operazioni suppone un’altra natura ritmica a comandare. Modificata la zavorra di tempo necessario tra il lavoro in laboratorio (riprese in pellicola, sviluppo e copia del negativo, esame delle copie ecc.) e sua verifica, la registrazione digitale modifica la dinamica della percezione, perché la verifica è immediata. La possibilità di trasformazione della luce, del colore, di inserire altre figure nell’immagine digitale, è di una facilità tentatrice. Idee complesse hanno una realizzazione semplice, scrisse un vecchio poeta e pensatore europeo…