Due colori-rosso e arancio- acrilici stesi su carta a pennello e l’intervento digitale per il rosa aggiunto a computer: lo stile richiama quello di un libro precedente e molto amato di Lorena Canottiere, «Verdad», una storia di resistenza ispirata a fatti storici e ambientata durante la Guerra Civil. La cura nelle scelte cromatiche e nelle tecniche è una delle cifre dei fumetti dell’autrice piemontese che segna anche l’aspetto del nuovo libro, scritto dallo sceneggiatore Julian Voloj e dedicato stavolta a un personaggio italiano realmente esistito. Il sottotitolo «la scelta silenziosa di un campione» racchiude molta della tensione della storia di Gino Bartali, che seppur nota, non smette di affascinare. Di origini umili, Gino nasce nella campagna fiorentina e sin da molto piccolo è un fanatico della bicicletta: oltre a un innato talento, ha la fortuna di crescere in una famiglia comprensiva che capisce e appoggia la sua vocazione. Siamo negli anni ’20 e Gino fa amicizia con il giovane Giacomo Goldenberg, che gli insegna qualche parola in yiddish e gli racconta di essere fuggito dalla Russia. Insieme al primo contatto con la cultura ebraica, arriva anche l’avvertimento di suo padre Torello: bene difendere le proprie idee ma senza darlo troppo a vedere.

Molti sono già gli episodi violenti, le aggressioni e gli attentati alla vita di socialisti e oppositori del regime fascista, ma la vita da corridore di Gino sta prendendo forma velocemente, come nel ritmo del racconto che incede incalzante e sicuro quasi a imitare i balzi impetuosi della gioventù quando si afferma e fiorisce, e che rallenta solo nel momento dell’incontro con Adriana.
Qui Lorena Canottiere dà briglia sciolta ai colori per ricreare i celebri volumi architettonici fiorentini e accompagnarci nelle romantiche passeggiate dei giovani innamorati che sfilano sullo sfondo delle prospettive rinascimentali della città. Il ritratto di Bartali è accurato, insiste sulla sua passione e sulla sua umanità, sulla tenacia dimostrata per aver gareggiato dopo infortuni, polmoniti e lutti, come quello dell’amato fratello Giulio, ciclista come lui. Sarà suo il Tour de France del 1938-ma non il Giro d’Italia, che gli fu impedito di correre. Nessuna delegazione si presenta ad accoglierlo al suo rientro da Parigi-al Duce non è piaciuto che Gino non abbia fatto il saluto fascista, ritirando la coppa- e la vittoria sembra già lontana quando poco dopo vengono promulgate le leggi razziali e capisce che tutta la famiglia del suo amico Giacomo Goldenberg è in serio pericolo. In quel momento Bartali passa in volata dalla storia dello sport alla storia ufficiale, indossando le vesti dell’eroe della resistenza alla barbarie razzista, in un quadro ancor oggi ricorrente dove gli eroi sono coloro che rischiano la vita per difendere i perseguitati, che da soli non potrebbero salvarsi dai tiranni.

È probabilmente in questa parte, in cui Bartali percorre kilometri in sella nascondendo documenti contraffatti per gli ebrei in pericolo, che la drammatizzazione del protagonista in primis, ma anche della moglie Adriana e dei personaggi minori si fa più profonda e dettagliata. Del racconto biografico questo colpisce: il contegno e la misura negli elementi che lo compongono sono comunque colmi di emozione, apprensione e impegno, come doveva esserlo il campione. Un uomo semplice, con un profondo senso della giustizia e ideali forti, mai ostentati come una coppa o un trofeo, ma rispettati e applicati nella quotidianità, così come emerge dalle fonti utilizzate dallo sceneggiatore Julian Voloj: il libro di Aili e Andres McConnon La strada del coraggio. Gino Bartali, eroe silenzioso »(66thand2nd), incentrato sui viaggi di Gino tra l’Umbria e la Toscana, dove nei conventi si trovavano nascosti gli ebrei in pericolo e dove si raccoglie la testimonianza di Goldenberg che con la sua famiglia venne nascosto e protetto dal campione; il racconto del figlio Andrea in «Gino Bartali, mio papà» (Tealibri) nel quale si scorgono le emozioni, i legami familiari e la vita domestica sempre associati all’impegno e all’ideale fedele al motto «il bene si fa, non si dice». La sobrietà del racconto a fumetti, privo di qualsiasi retorica, rispecchia perfettamente quella del campione che di questa vicenda e del suo ruolo di appoggio al DELASEM come cittadino laico nella tutela di moltissimi ebrei rifugiati in Italia, non volle mai parlare. Una storia di resistenza che nella nostra epoca di schiamazzi e profonde ingiustizie dovrebbe far riflettere sull’impegno solidale, sul senso di comunità e di responsabilità collettiva che abbiamo perso.