Dai tempi del suo primo romanzo Metroland, in cui ironizzava sull’irrazionale paura della morte che attanaglia il protagonista fin dall’adolescenza, ai racconti ancora inediti in Italia di The Lemon Table, tutti centrati sulla vecchiaia e l’avvicinamento al trapasso, passando attraverso le meditazioni del dottor Braithwaite sul suicidio della moglie nel Pappagallo di Flaubert, Julian Barnes non ha mai nascosto la propria quasi ossessiva tanatofobia, arrivando a farne la materia di un memoir, Niente paura (tradotto da Daniela Fargione, Einaudi, pp. 256, € 19,50) che esce ora in Italia, a distanza di quattordici anni dall’originale. I tre lustri che separano lo scrittore poco più che sessantenne del 2008 dall’uomo odierno, anni drammaticamente segnati dalla morte della moglie, rendono a tratti spiazzante la lettura di questo atipico esercizio di autofiction in cui, partendo dalla perdita dei genitori, Barnes riflette sulla mortalità sommando citazioni e aneddoti dalle vite di illustri tanatofobi e, al tempo stesso, sondando la memoria propria e quella del fratello, per ricostruire una frammentaria storia di famiglia.

Sinistri presagi
Se a marzo del 2008, licenziando il libro, Julian Barnes poteva autoconvincersi di venire a patti con la sua fobia attraverso la scrittura (e le buone letture), solo sei mesi più tardi, perdendo l’amatissima consorte nel giro di cinque settimane di malattia, la sua «tanatoenciclopedia» assumeva connotazioni inquietanti, quasi sinistramente premonitrici. L’ironia, la leggerezza satura di britannico understatement, ma soprattutto il sarcasmo che contrassegnano Niente paura appaiono ora dolorosamente superati dal successivo lavoro saggistico di Barnes, Livelli di vita, dolente e amarissima riflessione sulla morte della moglie e la difficoltà – anzi, allora, l’impossibilità – di elaborarne il lutto. Le considerazioni sulla memoria che sostanziano Niente paura, spesso sotto forma di confronto – o diatriba – con il fratello maggiore, il filosofo Jonathan Barnes, avrebbero assunto una forma narrativa nel fortunato romanzo Il senso di una fine, mentre a Shostacovich, uno tra i numi tutelari di Barnes nella ricerca di una chiave per superare la tanatofobia, l’autore dedicò Il rumore del tempo.

Nonostante gli anni e i trascorsi, Niente paura vale oggi come esempio di autofinzione, in cui i ricordi di famiglia incrociano la consapevolezza – più volte suggerita dal fratello filosofo – del fatto che la memoria è una facoltà più vicina all’immaginazione di quanto non lo sia alla documentalità. Proprio all’inizio del testo, Barnes apre l’esiguo archivio familiare: un cassetto in cui, accanto a documenti e certificati, sono contenute varie istantanee, tra cui alcune foto in bianco e nero ritoccate dallo scrittore adolescente con particolari colori in grado di aderire alla carta fotografica. Sono immagini che sembrano esemplificare l’evidenza per cui ognuno «ritocca» le proprie memorie in maniera diversa. «Mio fratello non crede nella verità essenziale dei ricordi; io diffido del modo in cui li coloriamo», commenta Barnes, «Abbiamo tutti la nostra scatola di colori a buon mercato e le nostre tinte preferite».

Non a caso, per Barnes, «ciò che si ricorda definisce la nostra identità; quando si dimentica la vita, si cessa di esistere, persino prima di essere morti». L’impossibilità di sciogliere l’enigma della morte è tutta qui, nel tentativo di rivedere l’immagine idilliaca offerta dalle istantanee familiari, mettendola a confronto con quella meno elegiaca della storia sociale. Il passato ricostruito attraverso frammenti ritrovati in fondo a un cassetto esibisce lacune, ma anche lati oscuri o sfocati, passibili di diversa interpretazione a seconda del ricordo di chi osserva.

Sulla copertina della prima edizione di Niente paura apparivano due fotografie emblematiche: una che ritraeva i piccoli fratelli Barnes insieme al bisnonno materno, e un’altra istantanea rovinata, in cui il volto femminile del soggetto ritratto era stato malamente graffiato: scomparse dalla versione italiana, la loro importanza è tuttavia fondamentale nel testo. Da un lato, la foto che mostra il contrasto tra l’anziano statuario e i due bambini, giocosi e irrequieti di fronte all’obiettivo, funziona come inquietante memento mori, che allo scrittore suggerisce non solo una riflessione sul come eravamo rispetto al come siamo, ma anche, un rimando esplicito alla vecchiaia ormai incalzante e uno più implicito alla morte.

Negli interstizi dell’ignoranza
D’altro canto, la foto sfigurata, che appare all’inizio del memoir, tra le istantanee conservate dal nonno, e torna alla fine, identifica l’azione stessa della morte e al tempo stesso è metafora del processo narrativo: non a caso Barnes si definisce «Qualcuno che, pur non ricordando niente, registra e manipola versioni diverse di ciò che non ricorda». Per lui, la cancellazione del volto è «un simbolo della morte di gran lunga migliore del solito teschio». Guardando la foto, dice di vedere nell’assenza di sguardo del soggetto fotografato la morte al lavoro: vira dunque il suo memoir verso una sponda metanarrativa, sottolinenando come gli scrittori lavorino proprio a partire dai misteri, dalle smentite, dalle assenze: «Ecco dove operiamo noi, negli interstizi dell’ignoranza, la terra della contraddizione e del silenzio, con l’intento di convincervi attraverso saperi illusori, di risolvere – o rendere utilmente vivide – le contraddizioni, e di rendere il silenzio eloquente».

Chi ha graffiato il volto della donna fotografata non ha trovato, sotto i capelli crespi, che carta ingiallita. Nel romanzo del 1991, Parliamone, Barnes ribadiva per bocca di una restauratrice l’assenza di uno statuto di verità ontologica nella narrazione, già espresso nella metafora della moltiplicazione dei «pappagalli di Flaubert»: raschiando il dipinto in superficie, se ne trova un altro, o se ne trova una versione più vicina all’originale; sta alla soggettività del restauratore, dice la protagonista del romanzo, capire quando fermarsi, quale versione accettare del dipinto restaurato. Ma arrivato al tempo in cui scrive questo saggio constata come, oltre l’immagine rovinata, non ci sia altro. Oltre la foto, oltre la scrittura, solo un nulla carico di un’inquietudine che l’esortativo Niente paura scelto per il titolo italiano non riesce a rendere.