>Se volete capire che cosa è successo in Jugoslavia circa 25 anni fa, quando la guerra interetnica ha sfaldato il paese sull’altra sponda dell’Adriatico, è necessario volgere lo sguardo a ciò che succedeva sugli spalti del campionato di calcio. Lo sport più volte ha anticipato quello che in maniera più velata si muove nelle viscere della società. È successo alla vigilia del primo conflitto mondiale, quando nei circoli sportivi già da alcuni anni soffiava il vento del nazionalismo esasperato. Sugli spalti del campionato di calcio jugoslavo, già dalla seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso si avvertivano i primi segnali dell’implosione del paese guidato da Tito. Un paese che nato a tavolino dopo gli accordi della seconda guerra mondiale, teneva insieme serbi, croati, montenegrini, kosovari, musulmani e cattolici, che convivevano pacificamente, delle quali la multietnica Sarajevo era un esempio.
Lo sport è il modo migliore per capire perché la Jugoslavia ha sempre sfornato grandi campioni nella pallacanestro, facendo della sua nazionale tra le più premiata del mondo con quattordici medaglie d’oro tra olimpiadi, campionati europei e mondiali. La Jugoslavia ha saputo coltivare anche eccellenti tennisti, per non parlare dei campioni del calcio jugoslavo, tra i quali molti hanno militato nel campionato italiano, ma più come individualità che come collettivo, pur essendo la nazionale più volte arrivata vicina alla conquista di titoli nei campionati europei di calcio o ai mondiali, e ancor oggi i paesi dell’ex Jugoslavia producono calciatori che giocano nei massimi club europei. Tra gli addetti ai lavori c’è ancora chi si diverte a stilare i nomi di una nazionale jugoslava che poteva competere ai recenti europei con i calciatori che militano nelle nazionali dei paesi che la componevano, ma quel paese non esiste più, e quei futili tentativi, anche se fatti solo per gioco, ignorano che quel paese nel pieno dell’Europa, è stato seppellito dalle macerie di una guerra alle porte di casa nostra all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, in nome della quale si sono consumate pulizie etniche, stupri e violenze, da Sarajevo al genocidio di Srebrenica, proprio ad opera degli ultrà che popolavano le curve delle squadre di club, come la Stella Rossa di Belgrado o la Dinamo Zagabria, terreno di reclutamento dei vari Milosevic e Tudman di giovani dei quartieri degradati e delle periferie industriali.
Il merito di ricordarci che un paese situato sull’altra sponda dell’Adriatico non esiste più e ciò che è successo sugli spalti negli anni precedenti alla guerra, durante i campionati di calcio, è di Paolo Carelli, ricercatore presso l’Università Cattolica di Milano, che ha scritto un bel libro Il Brasile d’Europa. Il calcio nella ex Jugoslavia tra utopia e fragilità (Urbone Publishing, euro 12). Carelli con una scrittura asciutta e chiara, priva dei fronzoli da bar sport che abbondano nei libri dedicati ai beniamini del calcio nostrano, ha scelto il terreno spigoloso del calcio come spia sociale e politica di una guerra, il cui esito è stato una Jugoslavia prontamente spacchettata dall’Europa. L’autore ricostruisce con date e fatti tutte le partite di calcio degli ultimi campionati di calcio jugoslavi, dove emersero i segnali, dapprima deboli e poi sempre più evidenti del nazionalismo, che in altri ambiti della società era strisciante. Il protagonismo degli ultrà della Stella Rossa, che costituirono le falangi delle Tigri arruolate da Zeliko Raznatovic, il capo venerato degli ultrà, meglio conosciuto con il nome di Arkan, amico di Sinisa Mihajlovic, attuale allenatore del Torino, utilizzati nel genocidio di Srebrenica. Arkan fu freddato nel 2000 davanti all’ Hotel Intercontinental di Belgrado, dove dimorava, non serviva più a Milosevic, la guerra era finita e sapeva troppe cose. Sul fronte opposto Tudman, leader politico e militare della Croazia, non mancò il ricorso agli ultrà della Dinamo Zagabria, i Bad Blu Boys: «Tudman se ne servì ampiamente, reclutando diversi ragazzi che si arruolarono in massa nel nascente esercito croato; molti di questi con lo stemma della squadra appiccicato sulla divisa militare morirono nelle prime settimane di battaglia». Nel suo libro Carelli ci svela un particolare: Pelè per la sua partita di addio alla nazionale verdeoro, chiese ai dirigenti della federcalcio brasiliana di organizzare un’amichevole con la nazionale jugoslava, perché la riteneva la più brasiliana d’Europa, capace di giocare un futbol bailado.