Tutto ciò che perdiamo sulla terra va a finire sulla luna, ci fa sapere scherzosamente Judith Schalansky riprendendo un’antica leggenda. «Qui da noi sulla Luna non ci attende la rinascita, ma solo la decomposizione in una sottile polvere grigia dotata di carica elettrica – un processo irreversibile su cui la nostra atmosfera così rarefatta e simile al vuoto ha un’influenza straordinariamente favorevole» scrive nell’ultimo capitolo del suo Inventario di alcune cose perdute immaginando un ufficio oggetti smarriti tra i crateri lunari.

Chissà se ci sono finite anche tutte le specie estinte di cui ricostruisce la storia lo scrittore e giornalista scientifico Massimo Sandal, nel suo La malinconia del Mammut (Il Saggiatore, 2019) dove ci accompagna in un percorso di ritrovamenti d’ossa e fossili marini rimasti incastonati tra le rocce di montagne adesso asciutte, fino ai resti di Ediacara «l’alba di tutto il bestiario che permea la Terra» – pure forme astratte, ideogrammi di ciò che siamo diventati, a cui risulta persino difficile affidare un nome, una funzione e di fronte ai quali «il nostro vocabolario, i concetti con cui pensiamo le forme viventi, cessano di avere senso».

È qualcosa che succede nel momento esatto in cui svaniscono le epoche, come accade tra le pagine de La mattina dopo i sessanta, nel White album di Johan Didion, quando l’autrice decide di fare i conti con l’essere stata una «figlia del suo tempo» e si scopre più che altro la superstite «di un’epoca insolita e introversa», dove il futuro aveva le sembianze di «qualche cittadina con una spiaggia caruccia» che alla fine non si è trovata o neanche si è cercata più. Un po’ come le lettere dai genitori scomparsi che il protagonista del racconto La cassetta delle lettere, contenuto nella raccolta La vendetta di Agota Kristof, aspetta tutta la vita per decidere di spostarsi lontano, lontanissimo, quando dopo trent’anni ne riceve una. E se vale sempre che da se stessi è impossibile fuggire, è pur vero che si può giocare a non farsi prendere, correndo il rischio di lasciarsi scappare di mano il filo dell’esistenza. «Mi stupisco io stessa del poco di me che è restato: una persona singola per ora di genere umano, che ha perso solo ieri l’ombrello sul treno» così Wisława Szymborska nel suo Discorso all’Ufficio oggetti smarriti, nel 1972 trovava le parole per descrivere il capogiro che segue alla presa d’atto dello smarrimento di sé. «La mia testa non so quale, non più una, non più unica, già simile alle simili, né femminile, né maschile» scriveva nel componimento Fotografia della folla, dello stesso anno, un immaginario autoritratto che andava a confondersi con le vite degli altri in una translucenza poetica, quasi una radiografia.

La scrittrice e designer di Berlino Judith Schalansky ha reso bene l’idea nel progetto grafico che ha pensato per l’edizione italiana del suo inventario, pubblicato a fine gennaio da Nottetempo (pp. 259, euro 19, traduzione di Flavia Pantanella), dove gli oggetti perduti ricompaiono prima di ogni racconto attraverso contorni lucidi, impressi nero su nero. Le abbiamo rivolto alcune domande.

Dodici capitoli, ciascuno dedicato a una cosa smarrita, distrutta o semplicemente dimenticata dalla storia del mondo. Dallo scheletro dell’unicorno di Guericke, ai carmi di Saffo, passando per la storia del Palazzo della Repubblica di Berlino, «Inventario di alcune cose perdute» è un libro di scomparse e ritrovamenti, assenze che lasciano echi o che restano prive di traccia. Le ci sono voluti anni per finire questo lavoro, racconti, e adesso, in modo imprevedibile, ci arriva mentre siamo esposti costantemente a un senso di perdita – della nostra vita di prima, del mondo come lo conoscevamo, di noi. Il suo inventario è in qualche modo un percorso a tappe che cerca anche di descrivere come ci relazioniamo alla fine delle cose, cosa ha imparato scrivendolo?
Che l’esperienza della perdita è all’origine della cultura tutta. Adesso mi è così chiaro che il compito più grande della cultura – dalla religione alla musica pop – è di aiutarti a fare i conti con l’esperienza della perdita. Trovare le parole adatte quando qualcuno muore, l’organo che suona nella chiesa durante una funzione funebre, la canzone malinconica che si ripete a loop dopo una separazione. Spesso capiamo cosa davvero qualcuno o qualcosa significa per noi solo quando dobbiamo compiangerne la perdita. E adesso, terribili non sono solo i molti morti che ci troviamo a piangere, ma anche il fatto che non possiamo congedarci da loro propriamente, che non possiamo farlo insieme. Tutti i rituali che potrebbero aiutarci a elaborare la morte sono sospesi.

Nelle prime pagine, inizia raccontando la storia di un viaggio che ha fatto in un piccolo villaggio danese, un villaggio con un cimitero al centro. Siamo così abituati a mettere la vita al centro che fa subito un effetto strano, e allo stesso tempo ci dice di come troppo spesso dimentichiamo di essere mortali. Cosa cambierebbe se ci abituassimo a ripensare la morte come qualcosa di «centrale» per le nostre esistenze?
In effetti il posto si trova all’estremo nord della Germania – è il villaggio di pescatori di Holm, vicino alla città di Schleswig, dove molti luoghi hanno nomi danesi. In questo piccolo villaggio il cimitero si trova esattamente dove ci si aspetterebbe di trovare il mercato, tutte le strade conducono lì, è davvero il cuore dell’insediamento urbano. Così gli antenati degli abitanti continuano a vivere proprio in mezzo ai componenti delle loro famiglie viventi, e chiunque abiti nel villaggio ha perfettamente presente dove andrà a finire prima o poi. Immagino che possa essere rassicurante, persino di conforto. In ogni caso più confortante del dislocare morti e cimiteri fuori dalle mura delle città, come è stato fatto in molte parti d’Europa per circa duecento anni, anche per ragioni legate al controllo delle malattie. La morte è stata patologizzata, pensiamo anche a come il lavoro nei mattatoi è stato reso invisibile, ed è stata dislocata il più lontano possibile dalla vita di tutti i giorni, quindi dalla nostra stessa percezione. Tuttavia, la morte fa parte della vita, per quanto disturbante possa risultare il concetto. È anche di fronte a questo tipo di ricordo che ci troviamo adesso, dolorosamente.

A un certo punto scrive che «vivere significa fare esperienza della perdita» e «sottrarsi alla prevedibilità» ma dice anche del nostro dolerci anzitempo e racconta di quel «sentimento misto di piacere e angoscia» di quella urgenza che sentiamo «fatale di voler impedire ciò che temiamo anticipandolo nel pensiero», quasi che presagire disastri potesse renderci immuni alle brutte sorprese, permettendoci di sfuggire all’ineluttabile. Come pensa che stiamo reagendo alla sorpresa in cui siamo incappati, considerando tutte le catastrofi che ci siamo abituati a immaginare negli ultimi anni?
Siamo sotto shock, fissiamo numeri che aumentano e curve che impennano, ascoltiamo gli esperti finché non ci convinciamo di esserlo diventati a nostra volta. Ma non so nemmeno se posso dire «noi» dato che i confini sono chiusi, e il bilancio delle vittime in Germania è al momento ancora così basso da lasciar immaginare che la catastrofe che sta avvenendo in Italia e in Spagna potrebbe ancora essere evitata. Sono, in ogni caso, molto grata alla Merkel per non aver attinto a una retorica di guerra. Il fatto è che siamo stati capaci di immaginare qualsiasi cosa – l’incidente di un reattore nucleare, inondazioni causate da cambiamenti climatici, forse persino una guerra – tutto, ma non un virus proveniente dal regno animale che ci avrebbe colpiti, risultando per alcuni completamente asintomatico e per altri semplicemente letale. E ancora una volta siamo di fronte al fatto che la questione della sopravvivenza è una questione di risorse.

«Una memoria che tutto conserva in fondo non conserva nulla» scrive anche. Veniamo da un periodo di esaltazione della memoria, anche come genere letterario, e in questi giorni in molti si stanno chiedendo quale senso avrà ancora la letteratura, se saremo destinati a leggere i diari delle quarantene per il resto della nostra vita. Perché, e cosa è importante dimenticare? Cosa salvare?
Dovremmo conservare la consapevolezza di essere mortali, un animale che, con i suoi 8 miliardi di esemplari, per un virus non è più né meno che un altro ospite. Siamo bravi a cancellare il nostro patrimonio animale, ad elevarci sopra ogni altra forma di vita sulla terra. È un’esperienza offensiva che potrebbe anche aiutarci a immaginare un futuro diverso, dove astinenza non necessariamente significa perdita. Stiamo solo vedendo che è possibile: quasi nessun aereo, autostrade vuote. Più che un essere mobile, l’essere umano è sociale. Questo è ciò che non dovremmo dimenticare.

C’è senza dubbio una connessione tra l’inventario e il suo precedente Atlante delle isole remote, uscito in Italia per Bompiani, nel 2013, dove raccontava di cinquanta isole che non ha mai visitato e mai visiterà. Come funziona la lontananza nella sua scrittura?
Amo ciò che è remoto, ai margini. Sono ossessionata dalle note a piè di pagina. Sono fermamente convinta che la storia del mondo possa essere raccontata partendo dai suoi margini, che siano isole remote o interruzioni nella tradizione, lo spazio bianco nei libri di storia. Nella realtà dei fatti, ciò che è al margine è il centro del mondo.

Nei suoi libri tiene insieme dati storiografici e fiction, e li declina in una scrittura pensante, letteraria. Come ci riesce?
È il modo in cui lavoro. Ne ho sempre desiderato uno in cui avrei potuto imparare tutto il tempo. Sono molto felice di averlo trovato. E non vedo l’ora che le biblioteche riaprano.