Tra i migliori e più freschi esponenti della scena new soul, grazie a un sound che attinge dallo scibile della black music (lui lo definisce «afro soul con un filo di funk»), in veste cosiddetta «vintage», ossia affine ai suoni delle origini, tra anni Sessanta e Settanta, JP Bimeni vanta due eccellenti album (Free Me e Give Me Hope) che lo hanno proiettato ai vertici della scena, Italia inclusa, dove ha un seguito fedele e appassionato. Lo ha confermato con un recente travolgente live a al Porretta Soul Festival dove ha sfoderato classe, freschezza, una somiglianza impressionante alla voce di Otis Redding, accompagnato dagli spagnoli Blackbelts, band di rara efficacia e precisione. JP Bimeni, oltre a una contagiosa simpatia, emana passione e sincerità, urgenza e maturità artistica. Ha una storia molto particolare che aggiunge ancora più fascino (per quanto drammatico) alla sua biografia.

Hai una storia molto speciale, che ti ha portato dal Burundi in Inghilterra in circostanze drammatiche.
È stato un cambiamento molto grande e un’avventura con così tante incognite. Sono fuggito dal Burundi durante la guerra civile del 1990 e sopravvissuto a tre tentativi di omicidio. Sono stato ferito e finito in ospedale, in fin di vita a Nairobi. Dal Kenya, grazie a una borsa di studio, sono finito in Galles e poi a Londra. Nonostante fossi giovane, solo 18 anni, senza nessuno che conoscessi e dovendo andare in un luogo per me totalmente sconosciuto (con il mio inglese terribile, quasi inesistente), cibo diverso, clima culturale ecc., direi che è stato un cambiamento radicale ma speravo tanto che alla fine sarebbe stato meglio per la mia vita. E così è stato.

C’è qualche eredità sonora o culturale della tua esperienza africana nella tua musica?
In questo momento, non ancora, ma immagino che prima o poi incomincerò a incorporare le mie radici africane nella musica che sto facendo. Qualcosa che arrivi dalla mia cultura originaria. Questo è sicuro.

Come sei entrato nella soul music? E in generale che tipo di musica ascolti?
Penso che si tratti di una seduzione incrementata e cresciuta nel corso degli anni e che i valori che la musica soul aveva abbiano e spero continueranno ad avere come qualcosa di distintivo. In Burundi, puoi ascoltare tutti i tipi di musica e il soul ne fa e ne faceva parte. Quando arrivai nel Regno Unito comprai i miei primi dischi (Otis Redding, Sam Cooke, Marvin Gaye, Ray Charles, Bob Marley ecc.). Non mi limito a certi tipi di musica, ascolto buona musica per la mia anima e che può spaziare dall’afro, al reggae, funk, jazz, classica, rockabilly e via dicendo.

Quando e come hai iniziato a suonare e cantare? Raccontaci delle tue prime esperienze musicali e di come sei arrivato a registrare il primo album «Free Me».
Ho preso in mano la mia prima chitarra a circa diciassette/diciotto anni in Burundi, una chitarra che mi è stata regalata da mia zia. Ai tempi non avevo idea di cosa fosse una chitarra, accordi o note ecc., ma ero solo felice di averne una anche se le mancavano due corde. Alcuni musicisti del Congo che vivono in Burundi, in particolare Emmanuel Kitambala della zona di Bwiza nella capitale Bujumbura, mi hanno insegnato alcuni accordi. Poi ho incominciato a scrivere dei testi e a jammare, ma in modo molto amatoriale. Poi in Galles, mentre frequentavo l’Atlantic College, ho avuto le mie prime lezioni di chitarra ma non ci ho capito molto. Così ho continuato a cercare di imparare da solo a un ritmo lento. Quando mi sono trasferito a Londra ho provato a prendere qualche lezione in maniera più strutturata. Durante l’università, alla University of Central Lancashire Preston, ho avuto la mia prima esperienza dal vivo sul palco, suonando e cantando. Me ne sono completamente innamorato. Ho registrato Free Me dopo essere stato scoperto dalla Tucxone Records ad Aviles, in Spagna, al La Grapa Festival, mentre cantavo come cantante ospite per una band funk e soul britannica, gli Speedometer. Sono stato invitato a far partire un progetto che è diventato JP Bimeni & The Blackbelts.

Quali differenze possiamo trovare tra «Free Me» e il nuovo album «Give Me Hope»?
Penso che Free Me sia fortemente puro soul classico mentre Give Me Hope ha sfumature di altri generi musicali ma ancora al servizio della musica soul. Ha alcune influenze rock, psichedeliche, afro e pop.

Sei sempre stato accolto calorosamente in Italia. Cosa ricordi del tuo concerto al Jova Beach Party davanti a 100mila persone?
Wow! Devo dire che è stato il concerto più grande che abbia mai fatto ed è stata un’esperienza meravigliosa e tutto ciò grazie al fatto che Jovanotti è l’essere magico che è. Jovanotti mi ha fatto sentire accolto, amato e accudito, ci siamo sentiti di appartenere l’uno all’altro. Gli sarò per sempre grato per avermi introdotto a un’esperienza del genere. Ci ha invitati anche quest’anno, a due dei suoi Jova Beach Party, il 2 e il 10 settembre, a Viareggio e Milano. Non vediamo l’ora di provare la magia che crea con la sua enorme squadra. È semplicemente surreale e amo il suo spirito come essere umano. È semplicemente meraviglioso e un regalo per il mondo.

Hai anche avuto la possibilità di incontrare e cantare con Amy Winehouse. Cosa ne pensi di un’artista così grande, che abbiamo perso troppo presto?
Ho quasi avuto l’opportunità di cantare/jammare con Amy. Era la prima volta che cantavo in questo prestigioso locale a Londra, il Jazz Cafe. All’epoca cantavo con una band chiamata Mantilla e il Jazz Cafe era un buon ritrovo per scoprire nuova musica e incontrare tutti i tipi di persone dell’industria musicale. Tutto quello che ricordo è che ha ballato tutta la sera in prima fila, apprezzando la nostra musica, poi è venuta proprio vicino al palco per chiedermi se poteva salire e suonare con noi, ma era la nostra ultima canzone e il locale ha dovuto chiudere. Era delusa e ha lasciato il suo numero per una prossima volta, ma sfortunatamente non c’è stata una prossima volta perché è diventata prima troppo grande e poi ci ha lasciati per sempre. È molto triste quello che è successo ad Amy, ma ha lasciato un segno enorme sulla scena musicale. Possa la sua anima continuare a riposare in pace.

In un’intervista hai dichiarato che se fossi un personaggio storico vorresti essere Nelson Mandela.
Come sai arrivo da un paese africano, il Burundi, con una disastrosa storia di guerre civili. Mandela fu tra coloro che fece da mediatore tra le parti in guerra e portò la pace. Ma purtroppo la nostra regione è sempre in tumulto.

E in quale gruppo ti piacerebbe aver suonato?
Bob Marley and The Wailers senza dubbio, non mi stanco mai di guardare i loro video. È qualcosa di così potente e ogni volta immagino di poter essere lì con loro. È potere, misticismo e la spinta per qualcosa di più grande. Ci sono almeno cinque o sei album che porterei sempre con me. Poi ovviamente nella band di Otis Redding (JP Bimeni suonò a lungo con una tribute band di Redding a inizio carriera, ndr). Invece se c’è una canzone che avrei voluto comporre, anche se pecco un po’ di presunzione, è You Do Something to Me di Paul Weller.

Naturalmente vogliamo conoscere i vostri progetti futuri.
(Ride, ndr) Il mio progetto futuro è il mio progetto attuale, poter viaggiare in Europa, America, Asia e Africa. Sarebbe un risultato incredibile e speriamo davvero che come squadra riusciremo a raggiungerlo. Quindi, imploriamo tutti gli auguri da tutte le anime buone.