Di Joy Williams, oggi settantacinquenne, finalista del National Book Award e del Pulitzer, la casa editrice Black Coffee aveva proposto lo scorso anno L’ospite d’onore, un’ampia antologia che includeva racconti pubblicati nelle precedenti quattro raccolte, tra il 1982 e il 2013, nonché alcuni inediti. Iniziativa meritoria, che si inquadra in un contesto di rinnovata attenzione per la forma narrativa breve, tra recuperi illustri come quello di John Cheever, casi editoriali come Principianti di Raymond Carver e scoperte relativamente recenti come George Saunders o Lucia Berlin.
È proprio alle sue raccolte di racconti che sono legate la fama di Joy Williams e l’ammirazione che le è stata tributata da maestri della narrativa americana come gli stessi Carver e Saunders, ma anche come Don DeLillo e soprattutto Bret Easton Ellis, che ha saputo cogliere con grande esattezza quel moto oscillatorio tra realismo minuto e virate gotiche e fantastiche nel quale sta forse la cifra più profonda dell’autrice, erede in questo di un’altra maestra della forma breve, Flannery O’Connor.

In rotta con la sensibilità del tempo

Diversa, invece, e in alcuni casi opposta la vicenda editoriale e critica spettata ai quattro romanzi di Joy Williams, e in particolare al secondo, che è probabilmente anche la sua opera più ambiziosa e sperimentale. Pubblicato nel 1978 e ora proposto da Black Coffee nella traduzione (eccellente) di Sara Reggiani, L’altro bambino (pp. 315, e18,00) fu oggetto di una doppia stroncatura, quasi senza precedenti, sul New York Times. Il 3 giugno, il quotatissimo critico Anatole Broyard, che pure aveva accolto con grande favore il primo romanzo di Williams, State of Grace, dichiarava, in apertura della sua recensione: «A Miss Williams piace rischiare e spingersi in luoghi che nessuno ha ancora raggiunto. Nel suo avvicinamento ai personaggi è più drastica di qualunque altro scrittore contemporaneo. Ma per quanto mi renda conto di sembrare brutale, trovo che nell’Altro bambino non ci sia quasi niente che funziona. Ammiro così tanto il suo primo romanzo da poter affermare che solo una persona di notevole talento può arrivare a scrivere così incredibilmente male».

Feroce e liquidatorio, il giudizio venne ribadito a distanza di un mese da Alice Adams, sulla stessa testata e con motivazioni sostanzialmente analoghe. Secondo entrambi i recensori, l’autrice avrebbe scelto di muoversi sulla terra di confine tra psicosi e realtà, corteggiando perennemente il grottesco, ma avrebbe commesso l’errore di affidarsi allo sguardo di un personaggio centrale del tutto fuori fuoco, rendendo così impossibile comprendere se i luoghi e gli eventi di cui è composto l’intreccio del romanzo siano reali o immaginari e privando il lettore di qualunque ancoraggio o punto di riferimento che lo guidi all’interno della storia.
Da queste due stroncature senza appello del quotidiano più influente sulla comunità dei lettori americani deriva la condanna di L’altro bambino a un lungo oblio editoriale: a nulla è servito il consolidamento critico dell’autrice, legato, negli anni Ottanta, soprattutto alla sua prima raccolta di racconti, Taking Care, e si è dovuto attendere il 2008 perché il romanzo venisse ristampato a trent’anni dalla pubblicazione, con una prefazione illuminante di Rick Moody, il quale sottolineava come L’altro bambino, con la ricchezza dei suoi richiami al mito e al folklore e l’adesione a una poetica che molto deve al realismo magico sudamericano, fosse quasi inevitabilmente destinato a entrare in rotta di collisione con la sensibilità contemporanea e con la deriva minimalista che, proprio alla fine degli anni Settanta, cominciava a imporsi, segnando la fine della grande stagione del postmoderno.

Riletto oggi, in una nuova edizione accompagnata da un’introduzione davvero persuasiva di Karen Russell, L’altro bambino mantiene in larga parte intatto il suo potenziale weird e divisivo. Soprattutto, appare evidente come quelli che Broyard e Adams consideravano difetti imperdonabili fossero in realtà il frutto di scelte ben precise da parte dell’autrice: ben lontana dal non essere in grado di mettere al centro della storia un personaggio solido e credibile, o di rendere intelligibili al lettore luoghi, azioni, scansione temporale, Williams decide deliberatamente di non farlo, e chiarisce le sue intenzioni fin dalle prime righe del romanzo. Che si apre, infatti, così: «C’era una giovane donna seduta al bar. Si chiamava Pearl. Beveva gin tonic e reggeva un neonato nell’incavo del braccio. Il neonato aveva due mesi e si chiamava Sam. Il bar non era male. Persone qualunque le sedevano intorno mangiando pretzel. Era pubblicizzato come un ambiente fresco e lo era. Dal centro della vetrina pendeva un orso polare di vetro cristallo. Fuori c’era la Florida».

Siamo apparentemente dentro il registro di un realismo solido e minimale: una donna con un bambino piccolo e un bicchiere di gin tonic accanto. Maternità e alcol, dunque, che sono e restano per tutto il corso del romanzo nuclei tematici importanti; e attorno, un’America nota e insieme banale, non fosse per il dettaglio dell’orso polare appeso al centro della vetrina del bar, decisamente incongruo nel clima quasi tropicale della Florida. Poche righe, però, e cambia tutto. «Dall’altra parte della strada sorgeva un grande centro commerciale bianco, pieno di auto bianche. Un’aria bianca e pesante penzolava dall’alto, scomposta in strati visibili. Pearl li distingueva molto nitidamente. Lo strato centrale era tutto sogno, equivoco e responsabilità. In cima le cose si muovevano con maggiore arroganza ed energia, ma al fondo di tutto c’era il moto perpetuo del presente».

La forma di una contro-tradizione
Tre strati di bianco: al centro il sogno e l’equivoco, ma anche la responsabilità individuale; in alto l’arroganza e l’energia; al fondo di tutto il presente, in costante movimento e dunque in perfetta continuità tra passato e futuro. È questa la metafora che innerva l’intero romanzo: ed è perciò che definire L’altro bambino la storia di Pearl e del suo incontro con Walker, che la trascina in un’isola al largo della costa Atlantica, del bambino frutto della loro unione e degli altri dodici ragazzini che popolano l’isola e vivono in assoluta, metamorfica libertà per decisione di Thomas, fratello di Walker e incarnazione ambigua del Prospero shakespeariano, significa sfiorarne appena la superficie e la complessità.

In realtà, leggere L’altro bambino implica necessariamente l’atto di immergersi nel bianco, passare da uno strato all’altro, dal sogno al presente, dall’energia pura al flusso indistinto, dall’equivoco all’arroganza, dall’innocenza alla responsabilità. E per farlo è necessario abbandonare molte regole della narrazione e procedere per suggestioni e richiami. Dalle Metamorfosi di Ovidio alla Tempesta, dal Signore delle mosche alle fiabe crudeli di Angela Carter, nelle pagine lucidamente folli di questo romanzo prende forma un’autentica contro-tradizione, fluida, a tratti dissacrante. Se non la si accetta, tanto vale rimanere seduti in quel bar della Florida e in quell’istante di quotidianità sospesa che tanti altri scrittori, forse meno coraggiosi o forse semplicemente dotati di un altro talento narrativo, hanno saputo esplorare nei minimi (e m inimali) dettagli.