Il sistema David O. Russell è facile da riconoscere. Si regge essenzialmente sull’alchimia che la regia e la macchina da presa riesce di volta in volta a creare con gli attori e il testo della sceneggiatura. A seconda dei casi funziona bene (Il lato positivo), benissimo (American HustleL’apparenza inganna) e in alcuni gira semplicemente a vuoto (Le strane coincidenze della vita). A Russell sostanzialmente piace giocare con un’idea di cinema a suo modo semplice ma che nel quadro del cinema statunitense attuale funziona come una sorta di incanto ingenuo retroattivo. Per godere infatti della «vera» storia dell’inventrice del vilissimo mocio, una scommessa per la quale, inutile negarlo, è necessario una particolare dose di sfacciato coraggio, bisogna semplicemente arrendersi all’euforico entusiasmo di Russell che, incurante delle critiche, continua film dopo film a fare le cose che lo divertono di più.

È evidente che si tratta di un’idea di cinema sostanzialmente autoreferenziale che gode, indifferente all’obiezione che non lo dovrebbe fare, e che soprattutto non ne ha alcuna ragione per farlo, delle motivazioni che lo rendono possibile. Eppure non si può non tacere della straordinaria capacità strettamente tecnica di Russell di orchestrare il racconto con un’abilità pressoché diabolica nel suo spudorato virtuosismo esibito. Succedono più cose nei primi ventisette minuti di Joy che in un qualsiasi altro film dalle medesime ambizioni commerciali attualmente in circolazione.

L’abilità con il quale il regista mette in scena un universo che sembra essere la versione blanda di un incubo borghese sciacquato all’acqua di rose di un John Waters pacificato, permettendo all’universo delle soap opera di entrare e uscire dalla vita dei protagonisti, creando in questo modo un effetto sottilmente allucinatorio, non è assolutamente merce comune.

Inutile sottolineare che quello di Russell è piacere sottilmente sovversivo nell’avvelenare la glassa caramellosa con la quale si compiace di ricoprire le sue immagini. Soprattutto il rapporto fra sonoro e immagini è gestito in maniera attenta e sottilmente disgiunto. E tutto ciò è solo nella prima mezz’ora. È altrettanto vero che progressivamente il film s’incunea in una narrazione più tradizionale e che il gioco degli attori si fa più compiaciuto. D’altronde tenere in piedi un simile registro che corteggia spudoratamente il kitsch – intuito come forma di un sentire piccolo borghese di provincia – senza sbandare di tanto in tanto è impresa che riesce solo ai più dotati. Ciò che tiene viva l’attenzione è il tentativo costante, quasi contro la materia del film stesso, di reinventare lo spazio dell’ansia di rivalsa borghese frustrata da una vita di fallimenti.

In questo senso il cast offre molti motivi di puro piacere (se visto in originale, va da sé…). A prescindere da Jennifer Lawrence, sempre in palla, come non ammirare Virginia Madsen e Diane Ladd che indossano l’aura dei loro giorni migliori con una dolente dignità elegante che fa il paio solo con la glaciale fissità di Susan Lucci e Laura Wright (le Danica e Clarinda della vera/falsa soap opera).

Persino le smorfie autunnali di Robert De Niro per una volta trovano una ragione d’essere più convincente del solito. Joy, a conti fatti, non è altro che la versione attuale e adeguata al cinema hollywoodiano d’oggi di un sogno americano un po’ inacidito, dove lo sberleffo agrodolce di Russell riscalda quasi come l’ottimismo doc di Frank Capra (basti pensare alla polizia che sequestra i mocio illegali). Certo, tutto può risultare persino irritante o indigesto. Eppure: il film di Russell funziona e a tratti persino molto bene (basti pensare a Edgar Ramirez). Non sarà un’idea di cinema rivoluzionaria; ma se funziona perché preoccuparsi di ripararla?