Resuscitando nella memoria le sue letture degli anni venti, Giacomo Debenedetti contrapponeva perentoriamente ai tanti nomi menzionati nelle storie letterarie, «gente che lavorava con carta, penna e inchiostro», la «fluida, stupenda, incessante calligrafia di luce» creata da Marcel Proust che, in virtù del suo intreccio consapevolmente incestuoso con i concetti di tempo e durata, pareva dotata della capacità peculiare di inghiottire l’orizzonte esistenziale del lettore, entrando direttamente a far parte del suo destino personale. Una impressione, quella del critico piemontese, che, in tutt’altro frangente, dovette essere condivisa anche da Joszef Czapski, pittore e ufficiale dell’esercito polacco che, caduto prigioniero dei sovietici nel settembre 1939 e internato prima nel campo di Starobel’sk e poi in quello di Grjazovec, scelse proprio l’autore della Recherche come soggetto per un ciclo di conferenze organizzato insieme ai suoi compagni, nel tentativo di esorcizzare attraverso il confronto intellettuale l’angoscia legata alla loro sorte futura.
Dettato nell’inverno 1940-’41 a due ex-commilitoni nel gelido e disadorno refettorio di un monastero sconsacrato in cui era stata allestita la mensa del campo, il testo originale francese titolato Proust contre la déchéance (Proust contro la decadenza) sopravvisse alle varie peripezie cui andò incontro il suo autore durante la guerra e fu pubblicato nel 1948 in traduzione polacca a Parigi sulla rivista dell’emigrazione «Kultura». Definito da Czapski stesso non un saggio letterario, bensì «una raccolta di ricordi su un’opera alla quale dovevo molto, e che non ero sicuro di poter rivedere un giorno», questo breve ma densissimo scritto viene ora riproposto da Adelphi nella cura impeccabile di Giuseppe Girimonti Greco con il titolo di Proust a Grjazovec Conferenze clandestine (pp. 128, euro 18,00), che riecheggia, anche se fortunatamente in modo meno roboante, quello di La morte indifferente. Proust nel gulag, apposto sul frontespizio della prima edizione italiana, uscita dieci anni fa, nella traduzione di Milena Zemira Ciccimarra per i tipi di Ancora del Mediterraneo.
Sorvolando sulle paradossali acrobazie linguistiche compiute da un testo prima concepito in francese e poi divulgato in polacco a Parigi dall’emigrazione anti-comunista, forse vale la pena di soffermarsi su quel «contro» ora eclissatosi dal titolo, ma che ben sintetizzava la natura resistenziale dell’opera. Una resistenza, quella di Czapski, che – insieme alle altre iniziative culturali autogestite dai detenuti di Starobel’sk e Grjazovec – si levava a baluardo dell’interiorità dei prigionieri, contro la prospettiva di un lento annichilimento spirituale e nella speranza di tornare, sia pur per qualche istante, a quel tempo di scoperte intellettuali antecedente la guerra che allora sembrava irrimediabilmente perduto. A seconda delle predilezioni del conferenziere di turno, lezioni improvvisate sull’alpinismo, la storia dell’architettura o quella del libro, risuonavano come echi di un passato felice tra le pareti del monastero in rovina; tuttavia, non è difficile ipotizzare che il ciclo tenuto da Czapski sulla Recherche, per le implicazioni stesse del tema, si fosse rivelato investito di una potenza evocativa del tutto particolare. Sì da spingere l’autore a chiedersi che cosa avrebbe pensato Proust medesimo, nella sua camera surriscaldata e tappezzata di sughero, se qualcuno gli avesse predetto che da lì a qualche decennio un gruppo di prigionieri polacchi, dopo una giornata di lavoro all’aperto a quaranta gradi sotto zero, avrebbe ascoltato con la massima attenzione le vicende della duchessa di Guermantes, di Swann e di Bergotte.
Ma per quali vie Czapski era giunto a Proust? A onor del vero, il pittore polacco ammette fin dalle prime righe che altri autori avevano attirato maggiormente la sua attenzione quando nel 1924, a quasi trent’anni, si era ritrovato catapultato da Cracovia a Parigi, alla testa di un gruppo di artisti polacchi squattrinati, seguaci di Cézanne. Solo la prolungata degenza causata da una febbre tifoidea nel 1926 lo aveva spinto a mettere da parte le opere dei suoi scrittori prediletti – Cocteau, Radiguet, Cendrars – per sprofondarsi nei meandri di Albertine scomparsa. Cosicché vi è un bizzarro parallelismo tra la convalescenza parigina e la «grave malattia», non meglio precisata, che a Grjazovec consentirà a Czapski di essere esentato dai lavori più pesanti e di preparare in relativa tranquillità le sue lezioni, il cui contenuto di volta in volta doveva essere sottoposto al vaglio delle autorità del campo. Lezioni che si trasformano fin da subito in un bizzarro esperimento mnemonico, o, meglio, in una singolare rilettura senza libro, dal momento che la biblioteca di Grjazovec disponeva sì dei classici russi, e addirittura di Thomas Hardy e Balzac, ma non della Recherche.
Da questo punto di vista, l’ufficiale polacco si ritrovò persino svantaggiato rispetto all’infermiere sovietico protagonista del racconto Marcel Proust di Varlam Salamov. Qui il porte-parole dell’autore, sopravvissuto ai gulag della Kolyma, si immerge nella lettura dei Guermantes, lasciandosi trasportare «in un mondo perduto da tempo, in altre abitudini, dimenticate, inutili», finché qualcuno non gli ruba il volume, forse per trasformarlo cinicamente in carte da gioco. Eppure quel che il testo di Czapski perde in esattezza e rigore, lo recupera paradossalmente in nitore dei dettagli, resuscitati qui grazie a quella stessa memoria involontaria che Proust collocava alle origini della creazione artistica. Già nel 1944, nei suoi Ricordi di Starobel’sk, l’autore osservava infatti come la sua «riscrittura» di Proust si fondasse su quei particolari «provenienti dall’inconscio» che «non sapevamo nemmeno di aver conservato nell’archivio della nostra memoria» e che forse proprio per questo gli apparivano «più intimamente legati gli uni agli altri, più personali». In altre parole, si realizza qui quella fusione tra la soggettività dello scrittore e quella del suo lettere-interlocutore in cui Debenedetti ravvisava una delle innovazioni fondamentali introdotte dalla scrittura proustiana. Il «tempo ritrovato» di Czapski a Grjazovec consiste per l’appunto in questo scoprirsi e dipingersi destinatario implicito della Recherche: un lettore capace – al di là dell’incommensurabile distanza spazio-temporale – di interpretare il testo in base alle stesse categorie utilizzate dall’autore per crearlo, e di condividere dunque con quest’ultimo lo stesso orizzonte di senso.
Eppure se questa ricreazione mnemonica di intere scene dell’originale proustiano fu così empatica, lo si deve forse anche allo sfondo particolare su cui l’artista polacco si trovò a riflettere sula propria remota esperienza di lettura. Uno sfondo sinistro, gravido di quella tragedia di cui Czapski allora non poteva essere pienamente consapevole e che avrebbe scoperto solo nel 1943, allorché nelle foreste di Katyn sarebbero stati rinvenuti i cadaveri dei quindicimila ufficiali e soldati polacchi detenuti nei campi di prigionia di Starobel’sk, Kozel’sk e Ostaskov e fucilati dai sovietici per ordine di Stalin nell’aprile-maggio 1940. Solo un caso fortuito aveva voluto che Czapski, trasferito da Starobel’sk a Grjazovec nella primavera 1940, non fosse tra di loro. Non stupisce dunque se, retrospettivamente, si troverà a definire le ore trascorse in compagnia dei suoi ricordi sulla Recherche come le più felici della sua vita. Riecheggiando ancora una volta un giudizio dello stesso Proust sulla fertile messa tra parentesi della realtà resa possibile dalla lettura: «Non esistono giorni che abbiamo vissuto tanto pienamente come quelli che abbiamo creduto di aver trascorso senza vivere, sprofondati nella lettura di un libro prediletto».