«Nel ritratto aulico di Gérard, coll’abito di velluto amaranto che scende fino al ginocchio, le candide calze di seta, il gorgerino, l’ermellino del manto, i ricami d’argento, il tocco con l’immancabile piuma bianca in una mano, mentre l’altra s’appoggia allo scettro, e un cimiero sovrasta l’ampio trono, Murat è un personaggio di quel fittizio Medioevo cavalleresco che Napoleone, novello Carlo Magno, tentava di resuscitare; appare, come apparve a Duret de Travel al suo ingresso a Cosenza, “simile ad un araldo, a un re d’armi”».

Queste parole di Mario Praz si riferiscono al celebre dipinto in cui Murat viene raffigurato con tutti gli attributi d’un sovrano dell’Ancien Régime. Esiste però un altro ritratto, sempre di François Gérard, nel quale il cognato di Napoleone appare nell’uniforme di comandante della Guardia dei Consoli, la carica che ottenne in seguito ai fatti dell’Orangerie di Saint-Cloud: posa simile, e simile l’eleganza un po’ rigida, da figura araldica, ma dall’espressione del volto traspare stavolta un po’ della tenerezza e bontà di cui si legge nei ricordi della figlia, la contessa Luisa Rasponi.

Fra l’uno e l’altro di questi due estremi d’una carriera che si sarebbe conclusa in maniera tanto commovente, vi fu Napoli, i suoi artisti e la grande stagione di mecenatismo e riforme cui è dedicata la mostra Napoli al tempo di Napoleone. Rebell e la luce del golfo, a cura di Sabine Grabner, Luisa Martorelli, Fernando Mazzocca, Gennaro Toscano per le Gallerie d’Italia di Napoli, dove resta aperta fino al 7 aprile.

Nella città partenopea, la vita di Murat e della moglie Carolina non era senza dolcezze: «sedendo al suo scrittorio», continua Praz, «la regina poteva vedere negli specchi che tutto rivestivano l’ampio sguincio della finestra, riflesso all’infinito il ceruleo panorama del golfo di Napoli», una terra che «sembra creata apposta dalla natura per servire da soggetto ad un pittore di paesaggio», questo è Thomas Jones nel diario di viaggio.

Anche Carolina amava i dintorni della capitale in cui aveva seguito il fortunato marito, e il 16 ottobre del 1808, in una lettera alla cognata, Hortense de Beauharnais, manifestava il suo entusiasmo: «j’ai vu Portici, le parc de Capo di Monte qui est beau, grand et bien couvert, il domine Naples, la mer et les campagnes ravissantes. La promenade la plus fréquentée de la ville est le beau quai de Chiaia, au bout duquel est le tombeau de Virgile».

La vediamo coi suoi bambini, Achille, Letizia, Luciano, Luisa, prima immortalati insieme da Gérard e poi singolarmente nella serie di dipinti di Benjamin Rolland presentati in mostra, dove ai fanciulli è conferita un po’ della grazia lievemente imbambolata delle figure di porcellana. Opere delicate, che preludono all’effusione del Biedermeier: le myricae dello stile Impero. Ne ritroviamo gli ambienti, la Stimmung, in un delizioso acquerello di Elie-Honoré Montagny, Interno del salone d’angolo di Carolina Murat, in Palazzo Reale a Napoli (1811): notiamo appena, sul fondo a sinistra dietro ai ricchi tendaggi color crema che smorzano la vivacità del tappeto a pampini e grappoli di uva, una finestra dalla quale è possibile scorgere il paesaggio tanto amato da Carolina.

Autoritratto, 1824-’25, Vienna, Biennale

Di questa Campania felix uno degli interpreti più significativi fu certamente Joseph Rebell, alla cui opera è dedicato il grosso dell’esposizione. Era un austriaco, che aveva studiato privatamente presso Michael Wutky, pittore di marine e di vedute. Come molti viaggiatori stranieri, ebbe la sua prima impressione dell’Italia dal nord: Milano e i laghi lombardi, dove Goethe immaginò si svolgesse l’infanzia di Mignon. L’oro, la luminosità furono dunque, dapprincipio, quelli d’Isola Bella, l’eden fluttuante concepito dalla capziosa fantasia di un Borromeo. In seguito, introdotto a corte dall’arcivescovo di Taranto, Giuseppe Capecelatro, si trasferisce a Napoli, dove farà la sua fortuna.

A cosa attingono le mirabili pitture che ammiriamo nel monumentale ingresso di Palazzo Zevallos, alla realtà o all’ideale? Una raccolta di studi, presi dal vero, in grafite e seppia su carta, d’uomini intenti a districare le reti, a tirare cordami o a esercitarsi negli strumenti musicali, rivelano tutta l’attenzione posta da Rebell al verismo delle sue composizioni. Poi, però, la luce dona un che di immateriale alla rappresentazione, quasi vi fosse in essa il potere d’addolcire le fatiche d’una umanità assorta nelle più varie industrie, quale la vide anche Goethe nel suo Italienische Reise. La luce, si dirà, è quella ideale di Lorrain. Ma non era di questa, appunto, che Chateaubriand scrisse una volta: «Avete ammirato senz’altro nei paesaggi di Claude Lorrain quella luce che sembra ideale e più bella che in natura. Ebbene, è la luce di Roma!»?

I valori che i pittori del settentrione ricercavano nel paesaggio dipendevano, almeno in parte, dal mito che ne avevano coltivato, ma ciò non impediva loro di ritrovare quelle qualità nell’osservazione scrupolosa di ciò che avevano dinanzi. Rebell aveva poi una maniera propria d’esaltare gli effetti di luce: attraverso l’interazione tra i primi piani e lo sfondo, con il primo piano in ombra conferiva «ulteriore risalto alla zona centrale del dipinto, distesa sotto un cielo radioso». Lo si vede nell’incantevole Veduta di Castellammare (1816) o nella Veduta della città di Vietri affacciata sul golfo di Salerno (1819) o ancora nella splendida veduta di Atrani (1817).

Ma il culmine del virtuosismo sotto questo aspetto lo si può ammirare nel bellissimo Burrasca al tramonto presso i Faraglioni di Capri (1823) o in Mareggiata a Fusaro (1819), dove i flutti hanno toni d’alabastro scheggiato. Proprio questi ultimi lavori fanno pensare al gusto per il sublime diffuso dalla sensibilità romantica. Ma ci si ingannerebbe ad accostarli troppo alle opere d’un Géricault. In Rebell resta qualcosa di settecentesco. Si guardi come uno scrittore del XVIII secolo quale fu Charles de Brosses descrive la tormenta abbattutasi sul Lago Maggiore: «Vogliate farmi giustizia, per carità», scrive il Presidente di Digione, «di questo piccolo furfante di lago che, pur non arrivando a misurare venti leghe, ed essendo peraltro molto stretto, si picca d’eguagliare l’Oceano e d’aver anche lui i suoi marosi e le sue tempeste».

Rebell giunse nel punto in cui questa visione razionale s’andava enfiando del nuovo respiro, senza ancora dare, tuttavia, in sconvolti panorami. I sopravvissuti alla sua Burrasca mostrano un dolore un po’ melodrammatico in un’atmosfera generale ch’è eminentemente contemplativa, quelli della celebre Zattera non hanno più parola: se mai scampassero alla tregenda, si ritroverebbero tra gli alienati di un sanatorio.

Rebell era un viennese dell’età classica. Il caseggiato sul Kohlmarkt, in cui abitò fin dall’infanzia, era lo stesso di Domenico Artaria, l’editore di Mozart e di Beethoven. E, a ben guardare le sue procelle, vien da riflettere s’egli non avesse in comune con quei compositori qualcosa di più d’una vicinanza spaziale. La pasta della sua pittura non ha più la succosa pesantezza del Seicento, ma, levigata e leggera, sfuma in raffinate modulazioni, dalla densità delle ombre fino alla diafana trasparenza degli sfondi. Se sei vorrà dunque trovare un parallelo musicale, non è al coro del primo atto dell’Otello di Verdi che ci si dovrà rivolgere, semmai a certi passaggi di Mendelssohn, o forse, ancor più, a quel terzo movimento della sonata La Tempesta di Beethoven, romantico sì ma non troppo.