Nei suoi romanzi, Joseph O’Connor si rifà spesso alla storia letteraria e politica irlandese: Stella del mare – il suo maggior successo, per esempio, ruota intorno a una traversata verso l’America durante la Grande Carestia del 1847; ma anche i più recenti Teatro d’amore e Una canzone che ti strappa il cuore, mentre raccontano gli anni tormentati di Bram Stoker al teatro Lyceum di Londra, inquadrano la storia del declino di un’attrice teatrale irlandese di inizio secolo, Molly Allgood, e la sua relazione con John M. Synge. Sia per raccontare il passato, sia allo scopo di enfatizzare le zone di incertezza che inevitabilmente ne fanno parte, O’Connor ricorre a una molteplicità di registri e spesso a una narrazione polifonica.

Un cast salvifico
Nell’ultimo romanzo appena uscito, La casa di mio padre, (traduzione di Elisa Banfi, Guanda, pp. 352 € 22,00) i ritratti dei personaggi e il racconto delle loro azioni si intrecciano a lettere private, sbobinature di trasmissioni radiofoniche, rapporti dei servizi segreti, stralci di autobiografie, monologhi interiori, in cui l’autore sfoggia le sue abilità mimetiche. E l’accumularsi di particolari e punti di vista contribuisce a far montare la tensione narrativa di quello che è a tutti gli effetti un riuscito thriller storico.

Fin dalle prime pagine viene annunciato un generico «spettacolo», del quale il lettore non comprende bene la natura. Ne sarà presumibilmente protagonista il «coro», che viene presentato, come in un programma teatrale, qualche pagina prima: un cast di personaggi che include uomini e donne, nobili, disertori e un monsignore irlandese, Hugh O’Flaherty. Ambientata durante l’occupazione nazista di Roma, la storia si svolge nei giorni precedenti al Natale del 1943, e lo spettacolo viene chiamato dagli improvvisati coristi «Rendimento», un’operazione il cui scopo è mettere in salvo reduci dei campi di prigionia nazifascisti, sfidando la sorveglianza del comandante della Gestapo Paul Hauptmann.

Coraggioso e talvolta brusco monsignore di stanza presso il Collegio tedesco di Roma, O’Flaherty è appassionato di boxe e straordinario conoscitore delle vie della capitale: a capo del gruppo, mentre finge insieme a loro di fare le prove del coro nel neutrale Vaticano, riuscirà a mettere in salvo migliaia di persone. Sono fatti veri, sebbene ampiamente romanzati.

A prima vista, la struttura corale e l’intreccio di generi testuali ricordano un romanzo vittoriano, come il Dracula tanto amato da O’Connor, che ha raffinato con maestria quelle tecniche compositive per ricreare non solo la polifonia delle voci e delle testimonianze, ma anche l’atmosfera fosca della Roma occupata, e il senso d’incertezza e di dubbio che fa da basso continuo alla storia del coro di O’Flaherty.

In particolare, O’Connor gioca con l’identità sfuggente dei personaggi, spesso indicati da semplici pronomi, in modo che per il lettore non sia immediatamente facile identificarli: sembrerebbe di trovarsi di fronte al corrispettivo letterario delle ombre che in un noir velano i personaggi. Una certa confusione, sebbene meno accentuata, deriva anche dall’ambiente multilingue, dove i vocaboli stranieri che spuntano nei dialoghi possono risultare a volte artificiosi, effetto tuttavia sfumato nella traduzione, in particolare – com’è ovvio – per quanto riguarda i lemmi italiani.

O’Connor disegna caratteri e relazioni in poche righe e, soprattutto, dà sfogo alla sua sorprendente e talvolta surreale inventiva: «era così pieno di sé – scrive di un personaggio – che se fosse stato una banana si sarebbe sbucciato da solo».

I volumi a venire
Dotato di una scrittura a suo dire «stereofonica», lo scrittore irlandese mette sulla pagina contemporaneamente presente, passato e molti rimandi letterari, raccontando la storia non troppo nota dello Schindler irlandese, e dando vita a una compagnia di personaggi le cui potenzialità si sviluppano nei successivi volumi della trilogia: la storia dello «spettacolo» di Natale del coro di O’Flaherty si conclude con questo libro, ma la contessa Landini e John May torneranno in opere a loro dedicate, confermando come la coralità possa funzionare da motore di storie, e i complessi ritratti che la animano possano portare il loro autore a esplorare le potenzialità narrative dei revenant anche in ambienti lontani anni e chilometri dal luogo di partenza.