«Esistono persone stimate che mostrandosi distruggono la propria reputazione», osservava Joseph Conrad nel 1912 tra le pagine delle sue Memorie: «È questo il pericolo a cui va incontro uno scrittore che decide di parlare di sé senza travestimenti». L’avviso vale anche per la recente ristampa dell’Epistolario di Conrad (a cura di Alessandro Serpieri, Giometti&Antonello, pp. 400, € 36,00).

Chi apre questa selezione di circa duecento lettere, inviate tra il 1885 e il 1924 a un numero ristretto di critici e amici, si ritrova ad ascoltare la voce di una disperazione interiore che Conrad non lascia trapelare nell’autobiografia e tantomeno nelle Prefazioni, deputate a giustificare la genesi dei racconti di finzione. È solo nella corrispondenza che lo scrittore, protetto dall’illusoria e confidenziale segretezza della comunicazione epistolare, si abbandona a confessioni e sfoghi sugli «sforzi» del suo mestiere di creatore di «anime».

Se le Memorie raccontano la carriera del romanziere come un avventuroso viaggio per mare fra le nebbie dei ricordi, le lettere funzionano invece come un quotidiano giornale di bordo, in cui Conrad indica le tappe, gli approdi e le periodiche tempeste delle sue audaci spedizioni letterarie. Ognuna delle sue opere viene qui presentata come un’impresa di conquista commerciale, progettata a tavolino e sorretta dal più ambizioso degli obiettivi. Perché dopo una vita trascorsa «fra cielo e acqua» come ufficiale della marina mercantile britannica, all’età di trentasei anni Conrad si impegna in una coraggiosa scommessa: a partire dal 1894, decide di mantenersi confidando soltanto sulle proprie forze di narratore e sulle risorse di una letteratura dal carattere sofisticato, arduo e del tutto impopolare, che rende difficile assicurarsi una cerchia sempre più ampia e diversificata di lettori.

Tormenti di un artista
La prima sorpresa che ci riserva l’Epistolario riguarda allora le sofferenze patite dal romanziere-navigatore nella sua cabina di pilotaggio. Fin dalla stesura del Nero del Narciso e di Giovinezza, Conrad trascina gli interlocutori in un «piccolo inferno privato», dove un penoso sogno di «racconti galleggianti» si fonde ai «raffinati tormenti» di un artista incontentabile, incapace di convertire la «forza nervosa» in frasi, e tuttavia non meno ostinato, nei suoi propositi, del vecchio marinaio della Ballata di Coleridge. Non sono rare le occasioni in cui la lavorazione dei racconti finisce alla deriva tra le nebbie della mente, in un turbolento oceano di parole, o si arena su un definitivo fallimento di risultati.

Eppure il timoniere avanza, con il pugno levato contro l’infame «mistero del Cielo» e il cervello logorato dal «demone particolare» di un’eterna insoddisfazione, sotto la sferza di un padrone «instabile» che impone di rispettare la rotta prefissata. A sostenere le fatiche, in ogni caso, non interviene soltanto una «satanica» follia, ma anche la tenacia maturata durante gli anni di addestramento navale: una professione nobile e formativa – garantisce Conrad nel 1917 – che gli ha insegnato anzitutto ad esercitare «l’intelligenza».

Sarebbe ingiusto insinuare che proprio questa qualità viene a mancare al romanziere, dal momento che l’Epistolario testimonia una caparbia consapevolezza delle strumentazioni di bordo e dei «metodi» impiegati durante le traversate letterarie. Compito dello scrittore, ripete Conrad, non è l’invenzione di intrecci, bensì la costruzione di situazioni drammatiche che consentano di «far vedere» ai lettori lo sviluppo di un singolo «stato d’animo». Per ricavare un appropriato punto di vista, a poco servono i protocolli del naturalismo di Zola, gli illusionismi della scuola simbolista o le trovate impressionistiche alla Stephen Crane: bisogna che il romanziere si rassegni a calarsi in se stesso, «come un minatore in un budello», e poi riemerga da quella «nera notte» per mettere in scena la verità nel più assoluto distacco, senza mai lasciarsi abbindolare dal melodramma dei suoi personaggi. Tutto lo spettacolo dipende dalla «presentazione». Solo dopo un adeguato trattamento, il soggetto dell’azione sarà in grado di esercitare sul pubblico un interesse che persiste anche quando il libro è stato richiuso.

Basta poco per comprendere che il metodo narrativo di Conrad si fonda sulla necessità di aggiudicarsi la simpatia e la collaborazione del lettore, «bestia rara» e volubile, chiamata a «riconsiderare» la storia nel suo insieme e a valutare la sua riuscita alla luce delle intenzioni del romanziere. Anche per questo l’Epistolario è disseminato di dichiarazioni programmatiche, con cui lo scrittore si impegna di volta in volta a specificare «la cosa» che ha «cercato di fare». E tuttavia, come ammette lo stesso Conrad nel 1906, qualsiasi definizione del suo lavoro finisce per risultare o «molto intima» o «molto superficiale»; e se da una parte le lettere offrono preziosi indizi sulla natura autobiografica della finzione letteraria, dall’altra si limitano a fornire un catalogo di principi «essenziali» e generici, che sembrano escogitati apposta per confondere le acque e immergerci in una palude di dubbi.

«Essere espliciti», confida Conrad al critico Richard Curle nel 1922, «è fatale al fascino di ogni lavoro artistico»: come se la posta in gioco fosse spinta di volta in volta verso i limiti dell’indicibile e la comunicazione epistolare puntasse a circondare le operazioni narrative con un margine di inesorabile mistero. Sembra quasi che Conrad condivida con Marlow – narratore di Cuore di tenebra – il gusto di mantenersi in superficie, sul «guscio» del racconto; e a tratti si fa strada il sospetto che il «gheriglio» della discussione, come affermava Edward Morgan Forster, si riduca anche nelle lettere a «una nube di vapore piuttosto che a un gioiello». Al mittente non importa tanto svelare il segreto della creazione, quanto precisare che ogni parola vivente della sua scrittura è dovuta, oltre che a un arcano commercio con i fantasmi dell’abisso, a una indefessa e orribile lotta per la perfezione della forma.

L’ombra di Flaubert
Non è difficile scorgere dietro le ossessioni di Conrad per lo stile l’ombra del «vecchio Flaubert», che si allunga sulle Memorie come sulle lettere nella sua posa di «santo» martire alla perenne ricerca della «parola giusta». Anche se poi, rispetto al modello, Conrad tende ad amplificare gli enigmi, perché è convinto che non sia lecito dare le proprie ossa in pasto all’incomprensione del pubblico.

Ma allora perché il romanziere – per altro sempre a corto di parole quando deve affrontare la «verità» del genere epistolare – insiste a inviare indicazioni sul suo lavoro creativo che lo portano a «pensare a voce alta» davanti a un circolo selezionato di ascoltatori? «Spero che questa lettera troverà un posto tra le memorie che qualcuno dei miei giovani ammiratori ha promesso di offrire», leggiamo in un messaggio all’editore William Blackwood, dove Conrad rivendica la modernità delle proprie tecniche di presentazione. A determinare la rotta dell’Epistolario non è dunque il solo desiderio di disquisire con i critici sui «fini artistici», ma è anche la volontà di contrabbandare una merce autobiografica ancora più romanzesca di quella contenuta nelle Memorie.

Nella maggior parte delle lettere, Conrad rivela sorprendenti tratti di parentela con alcuni «uomini di mare» dei suoi racconti: la «follia» dello scrittore è la stessa che spinge certi suoi personaggi – come il sottufficiale Burns della Linea d’ombra e il capitano Mac Whirr di Tifone – ad affrontare con implacabile fermezza gli spettri di una maledizione o la furia delle catastrofi naturali.

E poco importa se a causa di una simile autorappresentazione il letterato-navigatore rischia di essere confuso con un «ispirato» filibustiere, che si è messo in viaggio con un capitale insufficiente e con una buona riserva di «megalomania». Lo sfogo epistolare gli garantisce in ogni caso il piacere di contemplare assieme ai destinatari lo spettacolare naufragio dei propri folli intenti, e lascia aperta la possibilità di rilanciare nuovi «avvii» dell’arte narrativa anche quando nel 1908, dopo l’uscita dell’Agente segreto, la «reputazione letteraria» può ormai dirsi «un fatto» consolidato.

Non c’è da sperare che il demone dell’insoddisfazione si plachi nemmeno nel momento in cui l’eclatante successo del Caso – una sorta di best-seller che nel 1913 raggiunge in due sole settimane ben cinque tirature – permette a Conrad di ottenere la tanto auspicata «vendibilità». È a questo punto che il romanziere, prima di «posare il remo», tenta di liberarsi con un ultimo sforzo del mito di «scrittore marinaio» che lui stesso ha fabbricato nel corso dei decenni. La gente – protesta allora Conrad nel 1924 con Henry Canby – pensa «che io non faccia che meditare su roba di mare. È un grande sbaglio».

Anche perché, a dimostrarlo, intervengono le Prefazioni e le lettere di un essere imprendibile, refrattario a qualsiasi formula, dogma o «classificazione», che insiste fino alla morte di aver trascorso la propria esistenza rinchiuso in una «galera», ad escogitare svariati «effetti di prospettiva» per rappresentare non «storie marinaresche», bensì «studi» su sentimenti universali, ispirai dalla pietà umanitaria per gli «ottenebrati» e i sofferenti.

Sosteneva Virginia Woolf che gli Appunti di vita e letteratura – la raccolta in cui Conrad esibisce il suo «carattere» nel massimo del pubblico «déshabillé» – ci restituiscono il ritratto di un «uomo di buon senso». Lettera dopo lettera, l’Epistolario ci costringe a rimettere in discussione questa immagine e a sostituirla con un ulteriore miscuglio di «menzogne artistiche». La «personalità», suggeriva del resto Conrad a Edward Garnett nel 1896, non è altro che una ridicola «mascherata». E quando la maschera dello scrittore va i frantumi, sotto la superficie resta «qualcosa di irrimediabilmente sconosciuto»: un’inquietudine, o forse un vuoto, che solo in parte può essere colmato dal mistero della letteratura.