I primi segni di fatale attrazione per il jazz li diede con un album sontuoso e intenso che s’intitolava Court & Spark, 1974. Lì ad accompagnarla c’era il sassofonista Tom Scott con i suoi L.A. Express, «l’espresso di Los Angeles», davvero un treno in corsa di gente navigata e pronta ad andare oltre la logica dei tre accordi – tre. Forse, però, il jazz le scorreva già dentro anche quando tutti la prendevano per un’incantata e un po’ misteriosa ragazza del folk revival. Troppo strane le accordature aperte che usava, bizzarri quegli accordi che rovesciavano sistematicamente la logica da prima posizione sul manico, e tanto basti. Non che lei avesse avuto una vera educazione in tal senso. Era un fatto d’istinto, come molte cose nella sua vita. Lei è Joni Mitchell, la signora della canzone cui è stato tributato di recente un commosso concerto omaggio da tanti grandi per i suoi settantacinque anni (riportato anche in un doppio cd) cui ha assistito sorridente, malata e fragilissima.
SFUMATURE
Nel 1979 Roberta Joan Anderson, da tutti conosciuta come Joni Mitchell, aveva trentasei anni, aveva fatto uscire una tripletta di dischi molto vicini alle estetiche più afroamericane, ed era in pieno fulgore creativo, quando pubblicò un album leggendario, forse il suo più bello al di là dei capolavori folk rock: Mingus. Il più bello e il meno venduto di tutta la sua storia musicale, storia che scorre in parallelo con quella di pittrice delicata e capace di cogliere al volo con una sfumatura di colore una figura o un luogo. Esattamente come nelle sue canzoni. Mingus uscì nel giugno del 1979, con quel titolo pesante e semplicissimo che faceva intuire tutto anche a chi proprio nulla voleva sapere del jazz. Perché Charles Mingus, il genio compositore e contrabbassista se n’era andato da questo pianeta il 5 gennaio del 1979 a Cuernavaca, Messico, per tornare nel pantheon dei burrascosi dei afroamericani della musica. E Joni Mitchell aveva onorato il patto fatto con lui, di far uscire il disco. Una storia bella e dai tratti di struggente intensità, a ripercorrerla.
La musica di Charles Mingus in principio non ha gran peso negli ascolti di Joni Mitchell: certo, tutti sanno chi è Mingus, anche nel circuito underground del folk rock, tutti ne parlano, ma il primo contatto con la sua musica gli arriva con John Guerin dei L.A. Express, che le fa ascoltare Goodbye Pork Pie Hat, la struggente ballad di commiato scritta da Mingus per la scomparsa di Lester Young, e che finirà anche in Mingus. Joni non è particolarmente impressionata, la ascolta e se ne dimentica. Il jazz però è già entrato nella sua vita artistica, almeno per schegge tonificanti, da quando ha pubblicato Court & Spark, ma obliquamente è già una presenza. Da giovanissima Joni si innamora del trio vocale Lambert, Hendrix & Ross, dischi subito riposti accanto a quelli di Chuck Berry: il suo stile vocale molto assorbirà dalla sbarazzina intensità giocosa di Annie Ross. Ha poi una vera folgorazione quando le regalano tre dischi fondamentali di Miles Davis: Sketches of Spain, Nefertiti e In a Silent Way. In pratica un ponte che parte dalla massima raffinatezza orchestrale e arriva al nascente jazz elettrico. C’è già l’annuncio di Mingus, a ben vedere, perché nelle formazioni di Miles degli ultimi dei dischi ci sono Herbie Hancock e Wayne Shorter, che nel lavoro della Mitchell ancora nella mente degli dei si troveranno a suonare. Arriverà a dire, Joni, che Miles le ha insegnato a cantare, con i suoi dischi: la lezione, per usare le sue parole, «dei suoni puri e lineari». A volte si incrociano. Quando Miles si esibisce al Festival di Wight, il 20 agosto 1970, Joni è l’artista successiva a salire sul palco. Si incontrano anni dopo, con la mediazione del percussionista Don Alias, a lungo compagno di vita di Joni: Miles aveva molto apprezzato un quadro della Mitchell e insistette per andare a casa sua a vederla dipingere. Parlarono, pare, di pittura, ma non di musica. Con parziale delusione di Joni, che una qualche collaborazione musicale con il «Dark Magus» l’avrebbe voluta. Quando Miles morì, suo figlio, a sorpresa, trovò tutti i dischi di Joni Mitchell nella collezione di Miles Davis. E una stampa di un quadro di Joni vicino al letto.
PENNELLATE
Joni Mitchell è sempre stata un’eterodossa nel modo di affrontare l’accompagnamento alla chitarra: suona accordi strani, «sbagliati», per chi pratica le melodie folk, mentre per i rockettari è «troppo jazz». Lei in realtà suona d’istinto, in quel modo: non conosce le leggi dell’armonia, non conosce neppure i nomi degli strani accordi che trova. Nelle interviste dice di fidarsi delle sue orecchie, e della sua sensibilità di pittrice: se un suono è dissonante ma ci sta bene, in un passaggio, lei lo usa. Come una pennellata di colore su una tela. A un certo punto, per le misteriose vie del passaparola, a Joni arriva la notizia che Mingus aveva qualcosa in testa per lei. Era successo che l’italiano Daniele Senatore, (il produttore di Mimì Metallurgico e Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto) aveva fatto leggere a Mingus i Quattro Quartetti di T.S. Eliot. Mingus ha da poco scoperto di avere la Sla: ha bisogno di soldi per le cure, vuole lasciare almeno un altro segno forte sulla musica. A questo punto Senatore fa ascoltare a lui e Sue Mingus Don Juan’s Reckless Daughter di Joni Mitchell, uno dei dischi più sperimentali e meno fortunati di Joni, definito acidamente dalla rivista Rolling Stone «Il peggior disco dell’anno»: la scommessa è che quel disco così strano e cangiante possa incuriosire Mingus sull’autrice. E così va. Paprika Plains è una canzone-suite da sedici minuti del disco costruita a sezioni. Nella parte centrale c’è un lungo movimento improvvisato, e il pianoforte di Joni, registrato a distanza di mesi, mostra segni di lieve scordatura nel lavoro di cucitura in studio fra le parti suonate in tempi diversi, con un magnifico fondale orchestrale. Cosa che desta la curiosità di Mingus: gli piace, quel lungo momento di ambiguità, coglie al volo con il suo orecchio assoluto il gioco della dissonanza, e prova a rintracciare Joni attraverso i normali canali. Non ci riesce. A quel punto la voce arriva a Joni, che prende il coraggio tra le mani, e telefona a Mingus. Che col suo vocione calmo le spiega di avere in mente una musica su un Quartetto del poeta T.S. Eliot con un’orchestra, sulla quale poi far intervenire in contrasto basso e chitarra, e su quella base poi far recitare una voce molto accademica a leggere estratti del Quartetto. Joni Mitchell dovrebbe, nelle sue intenzioni, tradurre parte del Quartetto in linguaggio da strada, e cantare il tutto mente l’attore recita. Joni va a comprarsi il libro, lo legge d’un fiato, e le prende lo scoramento: è una missione impossibile, «come tentare di riassumere una sinfonia in una sola canzone», racconta in un’intervista. Segue telefonata a Mingus con gentile diniego, spiegandogli che sarebbe stato «una specie di sacrilegio».
Dopo un po’ di tempo si rifà vivo Mingus, al telefono: spiega a Joni che ha pronti sei brani musicali per lei, che attendono i suoi testi. È l’aprile del 1978. In quel momento Mingus, già molto malato, vive con la moglie Sue in un appartamento con grandi vetrate al quarantatreesimo piano del Manhattan Plaza. Con Mingus gli incontri erano una cabala, notoriamente: a Joni piacque subito, come persona. E viceversa. Era già immobilizzato sulla sedia a rotelle, non poteva più suonare una nota. Racconta Joni che quando arrivò all’appartamento, accompagnata da Don Alias, non gli fece l’effetto di un invalido, ma piuttosto di una figura regale grande e grossa che occupava tutto lo spazio del suo trono. Sue le racconta che ancora riusciva a gustarsi qualcosa della vita: aveva sempre un grande appetito, gli piaceva essere portato in giro su un furgone, perché erano gli unici momenti in cui riusciva a dormire, lui che soffriva di insonnia.
SCHERZI
Mingus le fa ascoltare un paio di suoi vecchi brani, spiegandole che avrebbe ipotizzato sei pezzi nuovi e due più antichi. «Questo ha cinque linee melodiche diverse», dice a Joni, e lei, interdetta, chiede a Mingus se dovrebbe di conseguenza scrivere a cinque tipi diversi di testi per un solo. Mingus risponde di sì. Poi fa partire il disco, un boogie a una velocità impossibile, impraticabile. Era un tipico scherzo mingusiano, pendere le misure a chi aveva davanti mettendolo alla prova.
Joni ritorna nel grattacielo diverse volte a trovarlo, per discutere dei testi, e per prendere nota delle idee che aveva in mente, a proposito, Mingus. Ogni tanto ascoltano assieme vecchi dischi, in silenzio. La salute di Mingus è sempre più compromessa, lui è in pieno declino, a dispetto della sua resistenza e combattività. Mingus, il disco, nascerà per tentativi, false partenze, totali ripensamenti di Joni. La salute di Charles, però, è sempre più precaria: a un certo punto Sue lo porta in Messico, aveva deciso di provare anche le cure di un guaritore. Joni Mitchell molla tutto, e raggiunge la coppia. Una decina di giorni. Mingus faceva ogni giorno di più fatica a esprimersi. Joni racconta che a volte riesce a intuire che Mingus voleva parlarle di musica e poi le faceva cenno di rimandare al giorno dopo, ma il giorno dopo era peggio. Sue, che aveva capito dove Mingus vuole arrivare, consegna a Joni molti nastri con interviste al Black Magus. Joni ascolta tutto con attenzione, con una specie di frenesia. Scopre di trovarsi in «in grande sintonia» con quanto affermava Mingus, e che, in quel modo, lui diventa una sorta di insegnante indiretto, per lei, con le sue meditazioni. Anche ora che non può più parlare.
MELODIE
Joni si mette al lavoro sulle melodie che Mingus le ha consegnato: tracce vocali cantate come poteva nel microfono di un registratore, con accordi al pianoforte aggiunti dall’amico Paul Jeffrey, e il ticchettio di un metronomo a inquadrare il tutto. Delle melodie fornite, due risultano a Joni del tutto inavvicinabili, nel senso che sente di non avere modi di «trascenderle» e rielaborarle. Una terza le appare meravigliosa, ma il tema per i testi proposti da Mingus è decisamente difficile: Mingus le fa capire che lì Joni avrebbe dovuto parafrasare un punto della sua autobiografia, Peggio di un bastardo, in cui lui, parlando con Fats Navarro, spiegava il suo rapporto con dio. Joni prova e riprova, ma non ci riesce, racconta: «Mi sono quasi fritta il cervello a forza di tentativi».
Restano tre melodie, e su quelle Joni riesce a viaggiare spedita. Le vengono idee a profusione. Ma, umilmente, dice che «lo sarebbero state per chiunque». Inserisce The Wolf that Lives in Lindsey, un pezzo che aveva scritto poco prima di incontrare Mingus. È uno strano brano, e l’idea del lupo, secondo Joni, si accorda bene con certe cacofonie dissonanti che a Mingus piacevano. Così descritta: «Lupi che pestano su tastiere, creando una bellissima, naturale cacofonia che trascende il concetto stesso di dissonanza». God Must Be a Boogie Man si basa sulle prime quattro pagine dell’’autobiografia, e Joni prova ad adattarle alle tre melodie scelte. Non funziona. Allora prova a usarle per un suo pezzo, e di botto tutto va a posto. È l’unico brano che Mingus non farà in tempo a sentire. A Chair in The Sky è una melodia complessa, fra quelle ideate da Mingus: Joni riesce a costruirci sopra una sorta di tenero catalogo delle cose che Mingus avrebbe ancora voluto fare. Sweet Sucker Dance ha una linea melodica che in parte ricorda un altro brano di Mingus, Sue’s Changes. Joni la dilata in otto spettacolari minuti. C’è poi The Dry Cleaner from Des Moines: il testo parla d’un giocatore di azzardo, Mitchell è titubante nel farla ascoltare a Mingus, sembra una provocazione. Mingus la prende a ridere, e in qualche modo le racconta di aver avuto un sistema tutto suo per vincere alle slot machine.
Joni ha una sorta di blocco creativo quando deve mettere il testo a Goodbye Pork Pie Hat, ma a un certo punto tutto si sblocca quando di notte, a passeggio con Don Alias, incrociano un bar: si chiama Pork Pie Hat Bar. E il locale successivo Charlie’s. E poi c’è la voce di Mingus, nel disco: al suo compleanno, e quando, qualche tempo prima, s’era messo a discutere su come avrebbe voluto il suo funerale. Tutte registrazioni fornite da Sue, «preservano frammenti di un’anima grande e colorata», nelle parole di Joni Mitchell.
SOTTO CHIAVE 
Mingus, ascoltato di fila, ha un’incredibile forza unitaria, e complessiva. Ma nella realtà non è andata così. Esistono versioni dei brani completamente diverse. Che Joni Mitchell tiene sotto chiave. Nelle prime session, agli Electric Lady Studios, quelli di Jimi Hendrix, in cui era presente Mingus, suonano Jeremy Lubbock, Don Alias, Stanley Clarke, gente che aveva un senso dello swing molto più vicino a quanto avrebbe voluto. Lei stessa racconta che forse «anche io ho cantato meglio»; in alcune altre prove gente come Phil Woods o Gerry Mulligan, Tony Williams, John McLaughlin, Jan Hammer, Eddie Gomez, John Guerin. Poi cominciano le discussioni, perché Mingus e Joni hanno idee diverse sulla musica: fino a un certo punto vanno d’accordo, oltre no. Ad esempio Mingus detestava gli strumenti elettrici, ritenendo che non avessero vera dinamica, e che tutto fosse delegato a pulsanti e comandi. Joni li amava, pur essendo essenzialmente una persona che suona strumenti acustici. In ogni caso, dichiara, «molte take mi facevano l’effetto di cose che avrebbero potuto esser state registrate vent’anni prima. In più c’entrava anche il senso di inferiorità che a volte provo quando tento di esprimere concetti musicali agli altri senza aver il bagaglio tecnico per farlo, e perfino quel senso di inferiorità femminile che mi capita di provare quando ci sono forti personalità maschili intorno».
Quando si riunisce la band finale, quella che Joni stessa sceglie, con Wayne Shorter, Don Alias, Herbie Hancock, Peter Erskine, Emil Richards, Jaco Pastorius, l’alchimia funziona: «Era quello il suono che volevo dietro la mia voce, un suono fatto di relazioni profonde avvertite all’istante. Me li eri già immaginati, assieme. Specialmente Wayne Shorter, credo il segreto del suo suono derivi da Miles: non combatte con le note, ha un modo speciale di commentare le frasi cantate, ha la testa di un pittore, è come se suonasse metafore, è come se mi parlasse. È lui che mi ha fatto sentire parte integrante del gruppo, non la cantante. È come se tutto il gruppo respirasse assieme, una cosa speciale».
Peraltro Shorter a quel punto è una vecchia conoscenza per Joni: ha suonato in ogni suo disco a partire da Don Juan’s Reckless Daughter, ha la medesima formazione nelle arti visive di Joni, e capisce al volo dove lei voglia arrivare, anche se si esprime con metafore pittoriche, non con principi musicali. Jaco Pastorius è la grande conferma per Joni: avevano già lavorato assieme per lo splendido Hejira, del ’76, quando la cantautrice era alla ricerca di un bassista che si sapesse prendere molte libertà, navigando sulle note più acute. Le dissero che c’era questo tipo strambo della Florida. Lo incontrò, e fu una folgorazione: «Era come se lo avessi sognato. Non dovevo dargli alcuna istruzione, potevo limitarmi a lascarlo andare. È un uomo-orchestra. È una sezione di sax, è una sezione d’archi, è un corno francese solista».
Jaco sarà con Joni sui palchi anche per il live Shadows and Light. A fine aprile del ’79, ancora privo di titolo, il disco viene fatto ascoltare a un party con i critici musicali. Che reagiscono in modo assai diverso: dall’entusiasmo alla sensazione di aver tra le mani un oggetto alieno. Mitchell ne è consapevole: «È un disco come fatto di mercurio, cambia e prende un’altra forma come un camaleonte a seconda dello stato d’animo con cui lo ascolti».
È un capolavoro: che non piace ai puristi del jazz, nella sua fluidità totale, ma senza assoli, e che lascia perplessi i folkettari che rimpiangono le buone vecchie e prevedibili canzoni. In copertina quadri di Joni, uno ritrae Mingus di spalle, sulla sedie a rotelle. Vende pochissimo, ci vorranno decenni per riuscire a ascoltarlo con orecchie diverse. A mente sgombra, sapendo di avere a che fare con la vera arte: che traduce e assieme tradisce chi ne è soggetto ispiratore.