Una sorta di intima coerenza, una qualche forma di subliminale consequenzialità tiene insieme tutti gli scritti di Jonathan Franzen, dai romanzi ai saggi agli interventi d’occasione, e ha a che fare con la sua formazione in un ambiente puritano del New England, la quale a sua volta comporta l’adesione più o meno cosciente alla credenza che essere umani equivalga a essere colpevoli.

Non a caso, il suo più grande successo si intitola Le correzioni, dove si allude al tempo stesso alla progressiva emancipazione dagli errori dei nostri genitori, alla caduta di valore delle azioni sui mercati finanziari e alla parallela precipitazione dei costumi nella società americana. Già allora, l’insoddisfazione di Franzen aveva trovato modo di alimentarsi ai disastri cui andava incontro l’ambiente naturale, e qualche increspatura di questa inquietudine si rifletteva nelle prime frasi delle Correzioni: «Il sole era basso nel cielo, una stella minore, un astro morente. Raffiche su raffiche di entropia. Alberi irrequieti, temperature in diminuzione, l’intera religione settentrionale delle cose era giunta al termine».

A contrastare la sua tentazione apocalittica – ciò che gli fa dire che «Il petro-consumismo ha vinto» e il tempo per invertire il cambiamento climatico è scaduto – interviene tuttavia in Franzen quel pragmatismo tipicamente americano, che lo ha portato, intanto, a impegnarsi nell’Homeless Garden Project, una fattoria agricola alla periferia di Santa Cruz, che offre lavoro a chi è senza un tetto, e dunque sostegno e la percezione di far parte di una comunità.

«Va bene lottare contro i limiti della natura umana, sperando di mitigare il peggio di quel che verrà, ma è altrettanto importante combattere battaglie piú piccole e locali che avete qualche realistica speranza di vincere», commenta in E se smettessimo di fingere? Ammettiamo che non possiamo più fermare la catastrofe climatica (Einaudi, Le vele, traduzione di Silvia Pareschi, pp. 64, € 10,00).

Si direbbe che negli ultimi tempi, il principale bersaglio polemico di Franzen, a sua volta derivato dal velleitarismo di promesse insostenibili sull’azzeramento di emissioni nocive e dalla generale indifferenza verso la necessità di preservare le biodiversità in via di estinzione, sia stato il prevalere delle preoccupazioni sul clima nel discorso pubblico sull’ambiente.

Franzen registra come «futile» un sistema di interventi che mentre progetta energie rinnovabili, per realizzarne le fonti distrugge ecosistemi viventi: per esempio nei parchi nazionali del Kenya, o nei colossali impianti idroelettrici del Brasile, o nella costruzione di centrali fotovoltaiche in spazi aperti, che riducono «la capacità di recupero di un mondo naturale», già impegnato in una lotta per la sopravvivenza.

Moderatamente progressista nelle questioni più tradizionalmente politiche, Franzen è diventato via via più radicale nello screditare la coscienza felice di chi propaganda ancora soluzioni che sono, in effetti, ormai alle spalle. In coincidenza con la campagna elettorale di Trump, partito per una spedizione di birdwatching insieme a un amico, Franzen assistette all’incendio che nella riserva tedesca della Stiftung a Jüterbog, dove nidificavano ancora rari uccelli, fra i quali il succiacapre e l’upupa, distrusse in quattro giorni quasi 750 ettari di boschi. La contemplazione della velocità con cui le fiamme saltavano ogni barriera, accelerarono la sua convinzione di quale fosse la posta in gioco già persa – una guerra contro il cambiamento climatico, che «aveva senso solo finché era possibile vincerla» – e quale fosse, invece, la scommessa ancora da giocare: « In tempi di caos crescente, la gente cerca protezione nel tribalismo e nell’uso delle armi, invece che nello stato di diritto, e la nostra migliore difesa contro questo tipo di distopia è mantenere democrazie funzionanti, sistemi giuridici funzionanti, comunità funzionanti».

Sempre, la scrittura di Franzen è andata dritta al suo obiettivo senza perdersi in abbellimenti, digressioni non strettamente funzionali alla caratterizzazione dei personaggi, effetti linguistici autoreferenziali; ma da quando la passione per gli uccelli, e di conseguenza per la necessità di preservare la natura, gli ha dettato interventi di polemica ambientale, la sua scrittura sembra accelerata in un crescendo di trasparente insofferenza, quella che gli fa titolare il suo ultimo intervento, appunto, E se smettessimo di fingere.