In diverse circostanze, Jonas Hassen Khemiri ha promesso a se stesso e a chi lo interrogava: «Non scriverò più di padri e di paternità. Ho esaurito l’argomento». Ma pur provando a cercare altre strade, tornava prima o poi a quella fonte ancora accesa di storie e sentimenti: non a caso, dunque, il suo ultimo e quinto romanzo si intitola La clausola del padre (traduzione di Katia De Marco, Einaudi, pp. 256, € 19,50), anche se qui Khemiri riprende il filo dei suoi temi più cari in modo sorprendentemente nuovo e con una prospettiva più ampia. Tornano, del rapporto tra padri e figli, la perdita e il senso di abbandono, la vergogna e la mitizzazione, le recriminazioni e le reciproche delusioni, ma qui la paternità si raddoppia: oltre al «padre che è anche un nonno», c’è infatti un «figlio che è diventato padre».

In cerca di applausi
Il protagonista, un giovane quarantenne in congedo di paternità, con una professione imprecisata e ambizioni confuse, si sente costretto a rivedere la propria storia di figlio e a studiarla fino in fondo per decidere che tipo di padre diventare, mentre il suo vecchio genitore continua a percorrere gli stessi binari, tappandosi gli occhi sui propri errori e pretendendo che il mondo si pieghi alla sua volontà.
Con il suo solito tratto timidamente autobiografico, Jonas Hassen Khemiri tenta un’onesta messa in scena della genitorialità dei nostri tempi e, soprattutto della tentazione di sclerotizzare le insicurezze individuali: il «figlio che è anche un padre» di due bambini piccoli è un uomo il cui bisogno di approvazione è esagerato, che interpreta ogni minimo gesto quotidiano come una prestazione da esibire. Ossessionato dallo sguardo e dal giudizio degli altri, ha bisogno di conferme e di applausi: come figlio, come compagno e come padre cerca di comportarsi secondo un ipotetico codice della perfezione. Gli piacerebbe pensare che se agisce così è perché è una brava persona, gli piacerebbe poter credere che gli viene naturale «ma non ha mai fatto niente in modo naturale. Ogni volta che fa qualcosa pensa a come gli altri la vedranno. Si fa i complimenti da solo per aver svuotato la lavastoviglie e si sforza di scacciare le voci che bisbigliano che odia quella vita, che non si è mai annoiato tanto e che l’unica cosa che vuole davvero è alzarsi e andarsene. Mollare tutto e sparire».

Fra tenerezza e ironia, il lettore è trasportato nella quotidianità di questo padre in congedo, in una routine ritmata dai soliti gesti che la sintassi brevissima e incalzante restituisce magistralmente anche grazie alla bella traduzione di Katia De Marco: una routine il cui tempo è scandito dalla ripetitività, anticamera della follia e del soffocamento ma, stranamente, anche rifugio in cui il tempo sembra sospeso.
Dietro all’amore e al senso di responsabilità si nasconde il desiderio di distruzione e l’istinto di fuga: è lecito ammutolire brutalmente il proprio bambino dopo giorni di semi-insonnia?

L’eco di Knausgård
Oltre al nucleo narrativo che ruota intorno all’uomo insicuro e preda di una costante ansia da prestazione, oltre all’affondo nelle minuzie del quotidiano – ciò che ricorda i diari del norvegese Karl Ove Knausgård, da Khemiri attentamente letto e amato – la Clausola del padre racconta anche la storia di un’evoluzione, articolata nei dieci giorni che danno forma ai dieci rispettivi capitoli del romanzo: il «padre che è anche un nonno», dal paese in cui vive irrompe regolarmene nella vita del figlio, a Stoccolma, per sistemare le proprie scartoffie fiscali. Inserita in una cornice familiare, la storia definisce i personaggi sottraendo loro il possesso di un nome: tutti sono connotati unicamente dalla relazione parentale (padre di, figlio di, sorella, di…) e questo collabora a limitare la loro fisionomia caratteriale e la loro possibilità di diventare «altro» da quel che sono.

Solo i personaggi femminili si sottraggono a questo destino: incredibilmente capaci di affrontare la vita con naturalezza e decisione, sanno quel che vogliono e puntano dritto ai loro obiettivi, sono presenti in famiglia e svolgono lavori importanti. La scrittura di Khemiri, spesso iscritta alla «letteratura della migrazione», si fa qui manifesto di un modello molto nordico di maschilità in crisi e in fase di transizione. Proprio contro questo modello si scagliano le critiche del vecchio padre, che afferma di non sopportare i giovani smidollati, senza cognizione di quel che vogliono né di come fare soldi, e che non tollera il welfare svedese, con i suoi assegni di disoccupazione, capace di far sentire le persone una nullità, né la trasformazione di Stoccolma in una città sempre più multiculturale.

Mollare le resistenze
Khemiri lascia la parola a tutti i personaggi non meno che al proprio alter-ego in congedo: padre, figlio, sorella, madre, compagna, figli piccoli, morti, a tutti sta fornire versioni alternative della stessa storia. La clausola del padre investe non solo il problema di come diventare adulto prima ancora che genitore, ma anche la difficoltà a mollare del tutto le proprie resistenze: per il protagonista crescere significa mettersi alle spalle l’idea infantile che comportarsi bene implichi l’essere ripagati, concedersi di trasferire le colpe di quanto accade su altri da sé, abbandonare la dimensione malinconico-adolescenziale della pura sopravvivenza, la subalternità al nostro destino, alle scelte non fatte. Un tragitto che Khemiri compie con ironia, portando i suoi personaggi a toccare il fondo, senza sapere cosa li attenderà.