«Cos’è diventato il mondo?! Un manicomio?! Speravo che tutti diventassero pazzi per me… non di me!» esclamerebbe probabilmente il Joker, offeso, uscendo dalla sala piena dopo la visione del film di Todd Phillips a lui dedicato e meditando già la sua vendetta.
«Si dia il caso che io sia matto, non stupido!».

Come la carta alla quale deve la sua caratterizzazione, a cui i giocatori possono dare il valore a loro più utile, il giullare di Gotham è un personaggio indecifrabile, al di fuori degli schemi, le cui misteriose origini – fra le quali quella di Phillips è solo una delle tante possibili – vengono continuamente riscritte; anzi egli stesso utilizza i suoi ipotetici passati come il repertorio di un commediante, scegliendo di situazione in situazione, la frottola più conveniente. L’enigma che lo circonda, la sua essenza ambigua, hanno costituito da sempre parte della sua fortuna… almeno fino ad oggi.

Nei giorni in cui Mussolini e Hitler sancivano la loro alleanza sul Brennero, il clown principe del crimine debuttò sul primo numero di Batman. Convinti che dopo ladri e malavitosi, il Crociato Incappucciato necessitasse di una nemesi alla sua altezza, altrettanto pittoresca, gli autori Bob Kane e Bill Finger crearono pertanto The Joker, ispirandosi al ghigno e all’estetica di Conrad Veidt, attore protagonista del film muto L’uomo che ride, tratto dall’omonimo romanzo sociale di Victor Hugo, il racconto di un uomo costretto, a causa delle sue cicatrici, a vivere la sua miserabile vita sempre con il sorriso stampato sulla faccia. Fin dalla sua prima apparizione il Joker viene descritto come un folle genio omicida e narcisista, dotato di un perenne «sorriso senza gioia» e di un debole per l’esibizionismo, che assassina le sue vittime con una droga letale che imprime sui volti una smorfia molto simile a un ghigno.

Commedia delle origini
I lettori di Batman dovettero attendere ben undici anni per apprendere le sue origini, raccontate per la prima volta in The Man behind the Red Hood. Fu allora il medesimo Joker a confessare di essere stato un tempo l’assistente di un laboratorio, che decise di indossare la maschera del famigerato criminale Cappuccio Rosso per svaligiare una fabbrica di carte da gioco, ma che una volta scoperto, si tuffò in una cisterna di rifiuti tossici per sfuggire a Batman. Joker sopravvisse all’incidente, ma le sostanze chimiche alterarono per sempre non solo il suo aspetto fisico, facendolo appunto somigliare a un clown, ma anche e soprattutto la sua stabilità mentale.

Dopo una parantesi, lunga quasi 15 anni, più umoristica e spensierata, fu Alan Moore nel 1988 a rinarrare con taglio più maturo ed esistenzialista la genesi del perfido Joker nel capolavoro della nona arte The killing Joke. Lo scrittore inglese volle approfondire la storia del Joker, cercando di portare alla luce le cause rimosse che lo indussero a considerare «il mondo come una barzelletta». Arthur Fleck è tratteggiato quindi come un povero comico frustrato, i cui insuccessi non riescono a donare serenità e benessere a sé e alla moglie incinta, e come ammetterà lo stesso Joker, «basta una giornata storta a trasformare il migliore degli uomini in un folle». Il giorno in questione è quello in cui per un malaugurato caso coincidono la morte accidentale della moglie e l’incosciente accordo con una banda di malviventi per commettere appunto il furto dietro la maschera di Cappuccio Rosso.

Follia con metodo
Nella mente del principe del crimine risiede una genialità sadica e machiavellica messa al servizio del Caos. Riflettendo sui suoi esibizionistici crimini «a tesi», annunciati sempre a gran voce, non si può far a meno infatti di affermare che ci sia del metodo nella sua pazzia. Come nella storia The laughing fish! (1978) in cui pretende da un impiegato dell’ufficio brevetti di poter registrare i diritti d’autore sui «sorridenti» pesci da lui stesso avvelenati.
Se, come esclama il Joker in persona, Batman e il suo senso del dovere sembrano sbucati fuori da un’illustrazione di Norman Rockwell, la prospettiva del clown su Gotham è quella di un infernale quadro di Hieronymus Bosch.

Joker non è il rivoluzionario portavoce del malcontento popolare, bensì il prodotto di un mondo infelice, che non vuole redimere ma seppellire sotto una risata. Una prima fascinazione del personaggio sul pubblico, probabilmente, è proprio difatti questa sfrenata e sconveniente funzione satirica, in grado di smascherare per mezzo della risata non solo la nudità del potere sovrano, la decadenza e la corruzione, ma anche «il più tragico e raro degli scherzi di natura: l’uomo medio!».

Le pistole del Joker sono perciò quasi sempre un giocattolo caricato a salve. Le sue vere armi sono la paura, la manipolazione e un deviato senso dell’umorismo. Come ha scritto Bergson, il riso è una forma castigatoria e decostruzionista adottata dai gruppi sociali per punire un’anomalia del sistema e che non può prescindere da «un’anestesia momentanea del cuore». Chiamato a doppiare il pagliaccio di Gotham nella serie animata di Batman nel 1992, pietra miliare della storia dell’animazione, Mark Hammill, offrendo la rappresentazione forse più riuscita del personaggio, affermò di aver usato la risata come un vocabolario, il colore sulla tela attraverso le cui diverse tonalità mostrare le emozioni vissute dal folle clown.

Joker è la pars destruens di Batman, ma che al contrario non ha bisogno di indossare una maschera o di truccarsi il viso, il suo colorito pallido, le sue labbra rosse, i capelli verdi sono già la sua vera pelle.
Quando nel 1988 il secondo Robin finì nelle grinfie del sadico Joker sulle pagine di Batman #427, l’autore Jim Starlin e l’editore decisero di rimettere la sopravvivenza della celebre spalla del Cavaliere Oscuro al volere del pubblico. Idearono quindi un sondaggio telefonico di tre giorni, in cui componendo uno fra i due numeri disponibili, i lettori avrebbero potuto decretare il destino del ragazzo meraviglia: vita o morte. Come in un’arena gladiatoria, il pubblico optò infine per il pollice verso. L’immagine michelangiolesca di Batman che sorreggeva fra le braccia il corpo senz’anima di un’icona pop come Robin ebbe una straordinaria risonanza mediatica.

Nuove versioni
Con A death in the family, Starlin non mise semplicemente di fronte agli occhi della società la mortalità del supereroe, ma rese la società stessa addirittura complice di tale delitto. Tutti possono essere colpevoli. La banalità del male è la tesi di fondo che muove il Joker punk di Heath Ledger nel film The Dark Knight di Christopher Nolan.
Ridurre il discorso però a una teoria sulla fascinazione contemporanea verso il bad guy sarebbe dozzinale, nonché vorrebbe dire aver dimenticato Barabba. La mitologia ci insegna che spesso per ogni eroe civilizzatore esiste almeno un eroe trickster, valvola di sfogo delle società severamente regolate. La questione verte invece piuttosto sul rapporto catartico e simbiotico che i mostri, come il Joker, hanno con le psicosi di Batman, cioè di noi esseri umani. È il male che genera Batman o è la sua esistenza a generare il male? Questo si chiese Grant Morrison nella meravigliosa graphic novel Arkham Asylum.

Affascinanti, originali e dai colori sgargianti i folli nemici dell’eroe scuro e tenebroso, condividono come lui un tragico passato che tuttavia li ha condotti fuori dalla «prigione euclidea della sanità mentale». Lo stesso Bob Kane però ammise che a monte della volontà di Batman di combattere il crimine travestito da topo volante, ci fosse una qualche «giornata storta». «Noi siamo te» dichiara il Joker alla sua nemesi. Come Yin e Yang, entrambi sono ingabbiati dentro una inesauribile ruota suicida, rappresentano l’eterna lotta tra bene e male, tra Logos e Caos, Materia e Antimateria.
Al pari delle forze complementari di Amore e Odio nel ciclo cosmico di Empedocle essi prendono vita soltanto dal loro scontro, quando tale conflitto finirà, allora cadrà il sipario su entrambi: «Il Joker deve avere Batman, anzi il Joker merita Batman!» parola di pagliaccio.