Se ne è andato a 70 anni, proprio come il suo grande mito Muddy Waters, per il quale – produsse tre dischi Hard Again, I’m ready e King Bee oltre a un live con il quale il maestro di Issaquena County portò a casa ben due Grammy. Johnny Winter, morto ieri in un hotel di Zurigo per cause ancora ignote, è stato uno degli ultimi grandi bluesman americani. Albino, chioma lunga e fluente dalle braccia completamente ricoperte da tatuaggi, Winter era nato a Beaumont, nel Texas e nella città natale aveva mosso i primi passi nel mondo delle sette note suonando l’ukulele sui successi degli Everly Brothers.

Un periodo fondamentale per la sua carriera e che Winter ricordava con ironia nel documentario: Johnny Winter: Down & Dirty (2014) «Ho registrato il mio primo disco a 15 anni, lo stesso anno in cui ho iniziato a suonare nei club, a fumare e a fare sesso. I quindici anni sono stati fondamentali nella mia vita…».

A far scattare la scintilla e la consapevolezza di un possibile futuro da musicista, sono le esibizioni in concerto di B.B. King ma soprattutto Muddy Waters dal quale viene letteralmente stregato. Imbraccia la chitarra e in breve tempo è in grado di esibirsi dal vivo maturando uno stile che infiamma e manda in estasi il pubblico.

Un furore e un talento che lo fanno finire nel 1969 sulle pagine del Rolling Stone tra i nomi più «caldi» della scena texana. E così un dirigente della Columbia, incuriosito, assiste in un locale a una sua performance e non ha dubbi. Il contratto è pronto e l’anticipo è di 600 mila dollari, mai concesso prima a un debuttante. Una sola richiesta dall’etichetta: deve diventare la «risposta americana» ai grandi chitarristi della scena inglese come Eric Clapton e John Page.
E il debutto (1969) non può essere migliore con un disco eponimo che ribolle di talento, tecnica ma soprattutto tanta anima. Sono blues originali impregnati di rock alternati a riletture di standard come When You Got a Good Friend dal repertorio di Robert Johnson. Nello stesso anno dà alle stampe un’altra raccolta, Second winter allo stesso livello se non superiore al debutto inciso per la major americana, dove inserisce elementi di psichedelia e affronta miti come Bob Dylan, reinventando la celebre Hightway 61 o l’eterna Johnny B. Good di Chuck Berry. A coronare un periodo d’oro la performance a Woodstock con i Progressive Blues Experiment e numerose esibizioni insieme a Janis Joplin.

Poi qualcosa si inceppa, dischi di routine per la Columbia fino al 1971 e il precipitare progressivo nella spirale della tossicodipendenza, lo porteranno lontano dalle scene per un paio di anni. Dalle droghe uscirà e nel 1973 per cinque anni ritroverà anche la creatività, un periodo culminato con due Grammy ottenuti per la produzione dei due album per Muddy Waters (’77 e ’78). Poi ancora tanti concerti alternati al riaffacciarsi degli antichi demoni – stavolta alcol e antidepressivi – , l’ingresso nel 1988 nella Rock’n’Roll Hall of Fame e un altro Grammy nel 2004 per I’m a Bluesman. Dopo un periodo di inattività discografica, Winter si era riaffacciato tre anni fa con Roots , un live ottimamente accolto dalla critica, aiutato da un gruppo di star come Susan Tedeschi e John Popper.