Eravamo abituati a vedere Johnny Mox in versione solista, one-man band all’opera con loop e percussioni, con quella formula unica che mescola gospel, punk, blues, beat-box ed elettronica. Ma i due anni passati con Stregoni devono aver cambiato qualcosa, nell’approccio del musicista di Trento. Il progetto immaginato assieme al chitarrista marchigiano Above the tree, una serie di workshop musicali in alcuni centri di accoglienza, coinvolgendo gli immigrati ospiti, ha infatti preso il sopravvento, ha moltiplicato impegni e concerti, ha fatto nascere una band itinerante numerosissima e che suona cose mai sentite altrove. Oltre ad essersi rivelato uno dei più interessanti esperimenti di racconto sull’immigrazione.

«ERO CURIOSO, volevo conoscere queste persone nella mia città e abbiamo pensato che la musica potesse essere il veicolo ideale» spiega Johnny Mox. «Abbiamo capito subito che il progetto sarebbe stato un tentativo di superamento di tutti i confini». Il laboratorio-concerto nasce dalle musiche che i ragazzi conservano negli smartphone, coinvolge musicisti e totali sprovveduti, si affida alla capacità di improvvisazione dei presenti. «Stregoni è un luogo che noi creiamo, in cui poi le persone interagiscono in base alle loro sensibilità. Il nome si è rivelato profetico, la musica è davvero quella magia che accorcia lo spazio tra le persone».Stregoni è arrivato a Parigi, Amsterdam, Amburgo, Copenaghen. Il nucleo più stretto si muove come una vera band, ha un’agenzia di booking a seguirli.

SUL PALCO sono salite più di 4mila persone in tutta Europa, provenienti da Africa, Asia, Medio Oriente. «Abbiamo deciso di non essere accomodanti e di non dare nulla per scontato» racconta Johnny Mox. «Il confronto con i ragazzi si stabilisce in due modi: andando d’accordo oppure no. Questa componente della difficoltà, della fatica, della diversità che esiste tra le culture, tra persone che non parlano la stessa lingua e che si trovano in un paese diverso, tutto questo è un elemento di forza incredibile del progetto, perché abbiamo deciso di metterlo sul palco. Portiamo allo scoperto le contraddizioni». È uscito un primo documentario sul progetto, mostrato su Vice. A breve verrà trasmesso quello prodotto da France 3, mentre in primavera uscirà il reportage sul tour europeo di Stregoni. Elemento fondamentale nei live è il pubblico, «che viene avvisato che noi stiamo cominciando un’avventura» racconta Johnny Mox, «e che quindi deve essere dalla nostra parte. Non tutto andrà perfettamente. Il pubblico è importantissimo, fa il tifo perché la musica vinca. Il palco è una grande metafora della vita. C’è un linguaggio che mostra bene l’essenza dell’interazione tra gli esseri umani». Quello dell’imprevedibilità è il tema da cui prende le mosse anche l’ultimo disco di Johnny Mox, Future is not coming – but you will, da poco pubblicato da To Lose La Track e Sonatine. Il terzo album, oltre a un ep e allo split con i Gazebo Penguins, suonato per intero con la sua band The Moxters of the Universe. Un sound classico, chitarre, basso, batteria, melodia, «quell’idea di musica che è come la bicicletta, un’invenzione perfetta che ciclicamente riscopriamo come tale».

IL FUTURO non arriva come ce l’aspettiamo. Sembrava scritto, come nel video di Destroy everything, realizzato montando alcuni filmini della laurea di Gianluca e della sua compagna, con la corona d’alloro al collo, la discussione davanti ai prof, le due nonne che si congratulano (e un Nokia 3310 sul banco, niente di più vintage visto da qui). Ma poi assume forme inaspettate, ci sorprende, ci porta a reinventarci. E questo vale tanto per la generazione del precariato che per chi emigra, con mille difficoltà, per poter vivere dignitosamente. Il lavoro che manca, l’automazione, l’isolamento dato dall’abuso dei social network, tutto si potrà affrontare se manterremo la nostra umanità. «Questo disco è una scommessa sul futuro» spiega Gianluca, «ho scelto di scrivere delle canzoni come non avevo mai fatto prima. Per riportare tutto a un livello più umano, autentico. Perché continueremo ad andare avanti. Ma alcune cose dobbiamo per forza preservarle, resteranno vive. Sono il motivo per cui siamo umani».