Chi, nel cimitero di Aix-en-Provence, voglia portare un saluto a Paul Cézanne, non dimentichi la presenza, davanti alla sua tomba, delle ceneri di John Rewald, che ne è stato lo storico ‘totale’. Ebreo berlinese, Rewald, ventenne, giunse a Parigi nel 1932, appena in tempo per sfuggire al Terzo Reich. Con una solida formazione storico-artistica, di stampo tedesco, egli si era occupato di architettura romanica e gotica, tema che intendeva approfondire. Insegnava alla Sorbona la massima autorità in materia, Henri Focillon, che diede un primo indirizzo alle sue ricerche. Il programma di Rewald era battere il Sud della Francia «in cerca» di cattedrali, con una Leica avuta in dono dal padre, protesi che trasformerà presto in organico strumento di lavoro e che già disegna il profilo del sommo studioso di ‘fatti’ come lo si conosce, soprattutto, per The History of Impressionism, pubblicato nel 1946 dal MoMA di Alfred Barr Jr.
Sullo Chemin des Lauves
Chi visiti, a Aix-en-Provence, l’ultimo atelier, musealizzato, di Cézanne, e in quel semplice edificio a due piani fatto da lui costruire, 1902, sullo Chemin des Lauves, poco fuori città, rimanga singolarmente impigliato nella luce diffusa che entra dalla grande vetrata del vasto spazio-pittura, rivolto a settentrione, non può dimenticare che il privilegio di questa prossimità gli è dato da John Rewald: il quale, nel 1953, avvertito dall’amico degli artisti James Lord della minaccia di una speculazione immobiliare sul fabbricato, ebbe l’idea, per procurarsi la cifra (relativamente modesta) atta a salvarlo, di coinvolgere alcuni collezionisti americani d’arte moderna. Il giorno stesso dell’acquisto fu subito donato alla municipalità di Aix, che lo inaugurò come casa-museo l’8 luglio 1954. Non contiene opere ma l’atmosfera storica è preservata come non ci si aspetta. Parlano gli oggetti del vecchio Cézanne: la palandrana polverosa, il carniere, il putto barocco in gesso reso memorabile da alcune nature morte.
Rewald era giunto per la prima volta a Aix-en-Provence nella tarda primavera del ’33: doveva essere una tappa del suo girovagare romanico-gotico sac au dos. Ma si fermò. La seconda moglie, Alice Bellony, racconta in una piccola biografia (L’Échoppe, 2005) come a fermarlo fu un gruppo di giovani tedeschi, conosciuti davanti alla fontana muscosa nel mezzo del cours Mirabeau. Uno di essi, il pittore Léo Marchutz, era infatuato di Cézanne e aveva convinto gli amici a ‘ritirarsi’ allo Château Noir, resti di un vecchio palazzo che si diceva fosse appartenuto a un mercante di carbone in traffici con il diavolo, circondato da rocce ciclopiche e piante selvagge: non era nero ma giallo ocra, il colore della pietra della vicina cava di Bibemus, lo stesso di gran parte delle chiese e degli hôtels particuliers di Aix.
Allo Château Noir, Cézanne si recava nella sua ultima stagione inseguendo il motif (vi aveva affittato una baracca per il suo strumentario), e qui i ragazzi tedeschi conducevano una vita adamitica, coltivando legumi, allevando polli e conigli, e fantasticando sul pittore. E a loro si aggiunse Rewald, che, appena conosciuti, li seguì lungo i tornanti della strada di Tholonet, fino a quel luogo. Un’esperienza iniziatica che cambierà il corso dei suoi studî: presto propone a Focillon una tesi di dottorato sulla ‘fratellanza discorde’ di Cézanne e Zola, divenuta libro nel 1936.
Tre anni dopo, per l’editore parigino Albin Michel, esce la seconda edizione, di mole quasi doppia, dedicata a Marchutz: nonostante la forte presenza di Zola, amico di Cézanne sin dagli anni di adolescenza, quando erano compagni di scuola al Collège Bourbon di Aix, e sguazzavano nei torrenti, e leggevano ad alta voce Omero e Virgilio, il libro già è, di fatto, una biografia del pittore, che nell’edizione ulteriormente integrata del 1948, uscita in America per Simon & Schuster, diventerà Cézanne. A Biography. La versione definitiva, del 1968 (Schocken Books, New York), aggiornava semplicemente la bibliografia e i cenni biografici: su di essa ci si è basati oggi per la prima traduzione italiana, condotta da Nicoletta Poo per Donzelli: Paul Cézanne Una vita (pp. VIII-277, 57 immagini fra colore e b/n, euro 30,00: peccato manchi l’indice dei nomi, davvero indispensabile). In coda al volume firma un buon profilo di Rewald Piergiorgio Dragone, che si è valso tra l’altro della testimonianza di Sabine Rewald, curator del Met di New York, già moglie del figlio Paul (nome dato nel segno di Cézanne), morto a soli 32 anni nel 1976. Il padre gli sopravviverà fino al 1994.
Fu lavorando su Cézanne che Rewald mise a punto il suo metodo, basato sulla ricerca capillare di fonti di prima mano e su un’inarrivabile capacità di organizzarle narrativamente. Questa capacità raggiungerà il suo massimo con La storia dell’impressionismo, dove essa è favorita dalla necessità strutturale di sviluppare in parallelo, sincronicamente, le vicende dei vari protagonisti. Qui il generale andamento cronologico è sottoposto a piccoli, ricorrenti assestamenti: se scompare Pissarro e a prendere il testimone appare Monet (Salon della primavera 1859), si tratta di riepilogare il prima di Monet, tornare indietro al suo apprendistato normanno accanto a Boudin, per poi procedere ulteriormente in avanti, fino al momento in cui riappare Pissarro, che si rimette in riga con lo svolgimento dei fatti nel momento in cui conosce Monet all’Academie Suisse, e vanno a dipingere insieme a Champigny-sur-Marne (aprile 1860). Il coordinamento di queste stringhe temporali, che realizzano continui, vivificanti cambi e incroci di scena dal sapore cinematografico, implica una padronanza epica del materiale documentario.
Prosa semplice e piana
La prosa, sia sintassi sia lessico, è talmente semplice e piana, che appare magico il suo comporsi in un quadro di attrazioni; queste attrazioni si basano specialmente sulla capacità di sollecitare nel lettore una precisa componente infantile, la voglia di imparare. Con Rewald imparare è facile, una specie di gioco: tutti i dati si dispongono, vengono calamitati in un perfetto ordine, logico e discorsivo. Il viaggio fra i pittori impressionisti si trasforma così in una specie di ritorno al banco di scuola, all’abbecedario, e poetica abbecedaria può ben dirsi questa di Rewald. Ed è così che venne fuori l’‘affresco d’epoca’ La storia dell’impressionismo, oggi riproposto da Johan & Levi nella traduzione, già Mondadori, di Margherita Leardi, che aveva sostituito quella, storica, di Antonio Boschetto per la prima edizione italiana (Sansoni 1949), voluta e presentata da Roberto Longhi con uno scritto, divenuto celebre, sull’impressionismo e il gusto degli italiani. Il merito del nuovo libro (pref. di Flaminio Gualdoni, pp. 606, 354 ill., euro 39,00) è nella precisione redazionale, con piccole ma opportune rettifiche traduttorie, e nella ricchezza a colori dell’apparato illustrativo.

Ma fu con il Cézanne che Rewald si fece le ossa. Nella ricerca delle fonti è una specie di cane da fiuto. Denise Le Blond-Zola, figlia di Émile, mette a sua disposizione la corposa corrispondenza dello scrittore con il pittore e con amici comuni: e questa è la base di lavoro, che Rewald, del resto, subito edita (P. Cézanne, Correspondance, Grasset 1937). Le fonti, per lui, non sono semplici dati di consultazione, ma luoghi pulsanti della memoria: fonti viventi, anche in senso proprio, perché egli è forse il primo in assoluto a consultare a tappeto, insieme alle carte, l’oralità dei testimoni rimasti. Ho sulla scrivania l’edizione 1939 del Cézanne, e «par les souvenirs qui nous furent rapportés» tanti sono i ringraziati: artisti come Blanche e Signac, e altri, un po’ più giovani, che, attirati dal selvaggio magistero del pittore invecchiato anzitempo, avevano fatto, profetico, il pellegrinaggio di Aix: Charles Camoin, Maurice Denis; familiari, come Paul Cézanne-fils o Lucien Pissarro, figlio di Camille e pittore a sua volta (di entrambi Rewald divenne intimo amico: fu anche curatore, nel 1943, delle significative lettere di Camille a Lucien); fra i collezionisti, Paul Gachet, figlio del famoso medico di van Gogh, che aveva ospitato Cézanne a Auvers e acquistato la straordinaria Moderne Olympia, «circonfusa da fuochi d’artificio cromatici»…
(Un consiglio: leggere il Cézanne in parallelo a Conversations avec Cézanne di Michael Doran – Parigi, 1978; in italiano, Donzelli, 1995. La minuziosa autopsia di Doran sui più importanti scritti relativi al Cézanne finale è degna di Rewald nel fare tabula rasa di sovra-interpretazioni e leggende. Negli anni finali, blandito e sollecitato dai giovani artisti in visita, Cézanne, fra disarmata gentilezza e scatti di furore, non si sottraeva a chiarimenti e precisazioni. Ma non era un teorico, e ci fu chi forzò le sue parole: p. e. Émile Bernard ne fece inopinatamente un pittore ‘idealista’. All’opposto Denis, uno dei testimoni e interpreti più intelligenti e credibili. Doran segnala con precisione tutte le manipolazioni, sia di concetto che linguistiche).
La religione del lavoro
Rewald vuole entrare nella vita dei ‘suoi’ artisti, parlare con loro per interposta persona, quasi medianicamente, calarsi nell’atmosfera degli ambienti in cui operarono: sembra cercare corrispondenze esistenziali, un riflesso del proprio destino. Leggendo i suoi libri, non è così immediato avvertire questo aspetto, tanto sono corazzati ‘positivisticamente’: i fatti, solo i fatti! Ma i suoi libri bisogna rileggerli, ed ecco filtrare l’inquieta ricerca intellettuale che li sorregge: ricerca fortemente segnata dalla radice ebraica.
Come testimonia Alice Bellony, Rewald era portato a identificarsi con i suoi «anti-eroi», gli impressionisti, nel modo ostinato e infaticabile, tutto centrato sulla religione del lavoro, attraverso cui essi si erano opposti alle avversità della fortuna. Anche per Rewald il lavoro è l’unica zona franca, l’antidoto. Espatriato dalla Germania, nazione che detesta al pari dell’adorata madre di origini russe, egli vagheggia una patria ma la trova solo in sogno: Cézanne! Adora la Francia, al punto da chiedere, senza successo, la naturalizzazione, ma la Francia lo tradisce: nel luglio 1940 la polizia lo preleva dal suo piccolo studio di Auteuil per internarlo nel campo di Vierzon nello Cher, non in quanto ebreo ma nemico di guerra, tedesco (compagni di sventura, Koestler, Ernst, Wols, Kracauer, Benjamin). Una ferita immedicabile, cui si aggiunge, nell’aprile 1941, insieme alla prima moglie Estella (Haimovici), il rocambolesco viaggio d’esilio per gli Stati Uniti, inframezzato da una sosta nella Martinica, che è sotto il regime di Vichy: di nuovo recluso (stavolta in quanto ebreo), ma in modo tropicalmente più lasco. E poi è la Martinica violacea e nera di Gauguin…
Torniamo alla Aix del 1933: quando Rewald conosce Marchutz, questi ha cominciato una ricognizione dei motifs cézanniani. Gli chiede di continuare insieme il lavoro, e, documentando con la Leica, realizzano una campagna sistematica nella regione: a Aix, all’Estaque, a Gardanne. Rewald, poi, estenderà il suo raggio d’azione nell’Île-de-France: a Auvers, Montgeroult, La Roche-Guyon… dovunque il pittore avesse posato lo sguardo. La rilevazione fotografica è uno strumento nuovo di studio, subito accolto dall’altro grande critico cézanniano, Lionello Venturi, che nel 1936 pubblica, edito dal mercante Paul Rosenberg, Cézanne. Son art, son œvre, il fondamentale catalogo ragionato delle opere: tra le fotografie ambientali che vi figurano, alcune furono fornite da Rewald e Marchutz. Nei suoi ottimi studi sulla fortuna dell’impressionismo fra le due guerre, Laura Iamurri ha messo a fuoco il problema: in un breve saggio del 2007 chiarisce come l’obiettivo di Rewald cerchi soprattutto la puntualizzazione topografica a scopo documentario, quello di Venturi sia più interessato a mostrare, nel confronto con i dipinti, il modo in cui siti spesso anòdini sono sottoposti alle potenti deformazioni del maestro di Aix.
Spartiacque Venturi
Marchutz aveva presentato a Rewald un altro patito di Cézanne, lo storico dell’arte austriaco Fritz Novotny, allievo di Strzygowski: una triangolazione di studî e ricerche, su cui cresce il lavoro per la stesura della biografia rewaldiana. Riguardo a Venturi, pur riconoscendo nel Cézanne di quest’ultimo uno spartiacque ‘scientifico’ per la comprensione del pittore, a fronte di tante imprecisioni e tanta letteratura, il giovane Rewald non ha alcun timore reverenziale verso il più maturo studioso, che gli poteva essere padre, nel segnalare alcuni limiti del suo lavoro, in particolare certa desistenza rispetto alla difficoltà di stabilire la cronologia delle opere. Si conosce Rewald come ‘narratore’ dell’impressionismo e del post-impressionismo (l’altro suo grandioso studio generale è Post-Impressionism. From van Gogh to Gauguin, New York 1956), un po’ meno come il feroce e ossessivo conoscitore che si rivela per esempio, appunto, nella breve recensione dedicata al Cézanne di Venturi («La Renaissance», marzo-aprile 1937).
Nel dare i loro frutti cézanniani della seconda metà degli anni trenta, Rewald e Venturi condividono non tanto l’impianto metodologico ma la visuale critica, tesa a riqualificare la componente impressionista nell’arte del maestro aixois: componente che era stata assai trascurata nelle interpretazioni francesi degli anni venti, volte a definire nel modo più normativo il canone ‘classico’ dell’arte nazionale (Fouquet-Poussin-Cézanne, questa la lignée), espellendone – in quanto espressione volatile, priva di sostanza plastica – appunto l’impressionismo. Anche i critici avanguardisti (p. e. Maurice Raynal) avevano contribuito a staccare Cézanne dal tronco impressionista, facendone il ‘primitivo’ del cubismo e in generale dell’arte moderna: per Rewald e Venturi questa riduzione dell’artista a ‘funzione storica’ comportava l’impoverimento di un’esperienza ben complessa, e radicale non in quanto ‘di servizio’ a Picasso e Braque, ma nei suoi valori intrinseci. E questi valori erano radicati, per loro, nella scoperta della natura di radice impressionista e nella disciplina ottica con cui Pissarro aveva aiutato Cézanne a liberarsi definitivamente della brutalità romantica degli esordî. Nella biografia, Rewald tratteggia con speciale partecipazione il periodo di Pontoise e Auvers, le due località vicine in cui il provenzale visse fra 1872 e 1874, in stretto contatto con Pissarro. Qui egli schiarì la sua tavolozza e presto, «seguendo l’esempio dell’amico, impiegò speciali spatole larghe due dita (…) per dipingere spessi blocchi di colore», che diventarono «piccole chiazze e macchie» disposte sulla superficie come se si trattasse di un «mosaico». Si vede bene come Rewald, implicitamente, consideri il momento impressionista di Cézanne in vista della maniera finale, quel «mosaico di tonalità» – conquistato trasferendo sulla tela la tecnica dell’acquerello, in cui egli eccelleva per ‘purezza’ –, che consente alle forme di aprirsi e ‘transitare’, con gli effetti elastici di spazio così ben compresi, poi, da Braque.
1941, giunto a New York
Giunto a New York nel maggio 1941, Rewald si dedicò anima e corpo alla Storia dell’impressionismo, mentre gli studî su Cézanne, che erano stati l’avvio per le ricerche sull’affresco generale, continuavano incorporando non poche novità. Culmineranno in un nuovo catalogue raisonné: questo volume, uscito postumo nel 1996, indica un vero e proprio passaggio di testimone, in quanto personale integrazione ed elaborazione dell’enorme lavoro lasciato in tronco da Lionello Venturi (morto nel 1961) in vista della seconda edizione del suo catalogo.
Non ricco, Rewald aveva il demone del collezionare e riuscì a raccogliere un eccellente insieme di disegni francesi moderni, acquistati a volte sul limite delle possibilità, a volte contando su una sicurezza di giudizio che lo portava a fare scoperte. Del resto, una volta famoso, la sua attività andò sempre più intrecciandosi con il mondo dei grandi mercanti americani. Sua madre si ammalò, c’era bisogno di denaro per l’assistenza, e Rewald decise, a 48 anni, di disperdere in asta i suoi disegni (Sotheby’s Londra, 7 luglio 1960): essendo questi garantiti dal suo nome, il risultato fu eccezionale (il primo disegno che aveva acquistato, di Suzanne Valadon, centuplicò il prezzo iniziale). Restò un notevole margine di danaro, che egli investì nel segno di… Cézanne.
A partire dal 1947, Rewald era tornato ogni anno a Aix. Una volta, dopo l’asta del ’60, ospite per qualche settimana dei Masson, che avevano una proprietà sulla strada del Tholonet, in direzione della Sainte-Victoire, si invaghì dell’idea di trovare una dimora in Provenza. Possiamo immaginare che i ricordi della primavera del 1933, quando tutto era cominciato – la fontana di cours Mirabeau, il gruppo di ragazzi tedeschi… – lo richiamassero nel modo più imperioso e fatale.
Luce, mistral, i pini parasols, le rocce, grigie o arancioni… Il viale dei castagni al Jas de Bouffan, casa di famiglia di Cézanne, il pistacchio nella corte dello Château-Noir e, nel parco, la cisterna… In occasione della epocale mostra sull’ultimo Cézanne, 1978, Rewald «tornò» in Provenza con uno scritto che oggi appare struggente, tanta la condivisione ‘filologica’ di ogni angolo, cosa, fenomeno avessero fornito a Cézanne le sue «piccole sensazioni» colorate. Ricorda come in giovinezza, con Marchutz, si alzassero all’alba per andare sui motifs; come, prima di fotografare, mentre il suo amico faceva la guardia, lui si arrampicasse sugli alberi per dare qualche sfrondata affinché il loro profilo corrispondesse con esattezza a quel che aveva dipinto Cézanne.

In questa Provenza Rewald volle stanziarsi, e la scelta cadde su un piccolo austero edificio risalente alle guerre di religione, appollaiato su uno sperone roccioso: la Citadelle. Non proprio vicino a Aix: a Ménerbes, l’incantevole villaggio della Vaucluse. Nei pressi, la casa regalata da Picasso a Dora Maar, che, pazza, vi si era reclusa, e il Castelet, dove Nicolas de Staël aveva dato luce ad alcuni dei suoi dipinti finali.
Un testimone: Borély
Negli ultimi anni, a volte, di primo pomeriggio, Cézanne dal suo studio saliva in alto sulla collina e dalle cime dei Lauves gli appariva la montagna Sainte-Victoire: non procombente e tronca come vista dallo Château Noir, ma distante e panoramica, galleggiante. Nel luglio 1902 l’archeologo Jules Borély, in cerca religiosa del pittore, gironzolava nei pressi dell’atelier, «sotto il cielo azzurro, fra due muri di pietre a secco», quando all’improvviso, di ritorno, «ecco Cézanne. (…) Blusa da vetraio, berretto a cono, carniere dal quale spunta un collo di bottiglia, verde; tra le mani la sua grande cassetta da pittore, la tela e il cavalletto. – Il signor Cézanne? – Signore?…». La biografia di John Rewald andrebbe letta tenendo presente quel «Signore?…»: toccante disponibilità a spiegarsi di un grande irascibile che non sapeva spiegarsi, e che qualcuno è riuscito a spiegare, con il lavoro di una vita, fino ai limiti del possibile.