“Le cose non sono sempre andate così bene, al mio primo concerto in un locale chiamato The living room, c’erano solo cinque persone. Compreso il barista”. Scherza l’allampanato John Legend stella incontrastata da almeno un decennio del new soul, voce forgiata alla scuola del gospel che indulge sovente nel falsetto, arrivato in Italia sul palco del romano Sistina, il tempio del musical diventato per una sera una sorta di appendice capitolina dell’Apollo theatre.

Autore, musicista, ottimo arrangiatore John Legend è uno dei pochi musicisti in circolazione capace di scrivere alla maniera della vecchia scuola soul interagendo con elementi hip hop e elettronici senza che risulti una forzatura. E per un semplice motivo: Legend scrive grandi canzoni che reggono alla prova del nove, ovvero un set acustico come quello portato in scena nel suo tour europeo. Nessun corista, un quartetto d’archi, e una sezione ritmica sostenuta da chitarra basso e batteria che permettono all’ex bambino prodigio nato nel 1978 a Springfield nell’Ohio di muoversi con scioltezza sul palco da vero showman,alternando le scorribande verso il pubblico a più raccolti – e applauditi – intermezzi piano e voce solo.

Elegante nel suo blazer grigio, papillon e camicia aderentissima dà subito un esempio della solidità del suo stile, prende Made to love, uno dei punti di forza del suo recente lavoro Love in the future e lo smonta, togliendo loop elettronici, un basso pulsante. E sciogliendo l’atmosfera cupa e voluttuosa che pervade la versione originale, la trasforma in una dolente torch song rallentata al pianoforte con qualche vago sentore jazz. E la canzone non perde un grammo della sua espressione. Show incalzante anche quando Legend si fa ‘confidenziale’: ricordi personali e professionali compresa l’infinita serie di collaborazioni con il gotha della black music da far girare la testa: da Kanye West il suo mentore che scoperto il talento lo ha promosso a braccio destro a Herbie Hancock, Cassandra Wilson, Pink arrivando a Lauryn Hill per la quale ha suonato sul celebre Miseducation.

E per Maxine, uno dei punti di forza del suo secondo album Once Again, sceglie atmosfere quasi da bossanova: . Vulcanico e generoso, pur avendo a disposizione un repertorio personale di almeno una dozzina di hit – sul palco del Sistina non mancano Get lifted, Ordinary people e il suo primo exploit nelle classifiche di Billboard,  Used to love you, si diverte a saccheggiare i classici riprendendoli a modo suo. Al soul puro quattro anni ha dedicato un intero disco insieme ai versatili Roots da dove ripesca Wake Up Everybody originariamente proposto da Harold Melvin & The Blue Notes, ma a toccare il cuore è invece uno dei capolavori di Simon e Garfunkel, Bridge over troubled water solo piano e voce, dove affianca a un’interpretazione magistrale un controllo vocale spaventoso.