Un secolo fa, il 29 maggio 1917, nasceva a Brookline, in Massachusetts, John F. Kennedy. Da meno di due mesi Washington era entrata nel primo conflitto mondiale e, come se si fosse trattato di un metaforico imprinting, le guerre segnarono profondamente la sua esperienza personale e politica. Infatti, dopo aver combattuto in marina nel secondo conflitto mondiale ed essere rimasto gravemente ferito alla schiena, come presidente degli Stati uniti, carica a cui fu eletto per il partito democratico nel 1960, Kennedy guidò il proprio Paese in uno dei periodi di maggior tensione della guerra fredda.

Da inveterato anticomunista, nel 1961 Kennedy avallò un approssimativo piano della Cia per rovesciare il regime castrista a Cuba con una velleitaria invasione dell’isola da parte di sostenitori dell’ex dittatore Fulgencio Batista, che i barbudos di Fidel avevano deposto nel 1959.

Fu una sconfitta non solo militare, ma anche e soprattutto politica. L’operazione rivelò che Kennedy continuava ad avvalersi di interventi armati come strumento privilegiato per sostenere gli interessi statunitensi all’estero. All’inizio del mandato, invece, si era proposto di fronteggiare l’attrattiva del comunismo nel mondo con metodi alternativi, capaci di suscitare consenso per gli Stati uniti nelle nazioni emergenti, anziché esercitando prevaricazioni. Aveva, pertanto, lanciato programmi di modernizzazione e cooperazione economica, come l’Alleanza per il Progresso rivolta all’America Latina, che avrebbero dovuto restituire credibilità internazionale a Washington e riscattarne un’immagine profondamente offuscata dalla promozione di golpe militari che aveva caratterizzato la strategia del suo predecessore repubblicano, Dwight D. Eisenhower.

Inoltre, il tentato sbarco, ancorché fallito, indusse Cuba ad affidarsi alla protezione di Mosca e a consentire al Cremlino di istallare missili balistici puntati sul territorio statunitense. La presenza di armi nucleari sovietiche a 90 miglia dalla costa della Florida portò le due superpotenze sull’orlo di un conflitto nucleare nell’ottobre del 1962. Ma, dopo aver scartato l’ipotesi di una risposta militare all’erezione del muro di Berlino nell’agosto dell’anno precedente, Kennedy dette prova di moderazione pure nella controversia su Cuba e accettò un compromesso: la rinuncia a ulteriori iniziative contro il governo dell’Avana in cambio del ritiro delle testate di Mosca dall’isola. La consapevolezza che questa crisi era giunta quasi a provocare lo scoppio di una terza guerra mondiale spinse Kennedy ad aprire una fase di distensione con l’Unione Sovietica, culminata nel 1963 con la sottoscrizione di un trattato per la messa al bando parziale degli esperimenti nucleari per fini bellici.

Nel sud-est asiatico, però, Kennedy non dimostrò un’analoga prudenza. Dopo che il consolidamento della divisione della Germania aveva stabilizzato la guerra fredda in Europa e mentre l’epicentro dello scontro tra i blocchi si stava trasferendo nei Paesi emergenti, il presidente accettò il principio che il confronto con l’Unione Sovietica fosse una sorta di gioco a somma zero, per cui un arretramento in una qualsiasi area del pianeta si sarebbe inevitabilmente trasformato in una sconfitta di proporzioni globali. Così, per tutelare il regime filoccidentale del Vietnam del Sud contro il comunismo, aumentò il numero dei consiglieri militari statunitensi in questo Paese, da 700 a 16.000, ponendo le premesse per quella escalation del coinvolgimento armato di Washington in Indocina che il suo successore, Lyndon B. Johnson, avrebbe portato a compimento.

Una grande cautela contraddistinse la politica di Kennedy sulla questione razziale. Nella prima metà degli anni Sessanta, nel Sud degli Stati uniti, la legislazione segregazionista imponeva ancora la separazione fisica tra bianchi e neri nei luoghi pubblici. Inoltre, alla maggioranza degli afroamericani seguitava a essere impedito materialmente di esercitare il diritto di voto, con escamotage legali, intimidazioni e violenze. Consapevole del fatto che l’elettorato bianco e conservatore degli Stati meridionali costituiva un consistente serbatoio di voti per il partito democratico, senza il quale non avrebbe ottenuto la presidenza nel 1960, per lungo tempo dall’entrata in carica Kennedy non volle precludersi la conquista di un secondo mandato nel 1964 e si rifiutò di prendere una posizione netta a sostegno delle rivendicazioni degli afroamericani per la pienezza dei diritti civili. Si decise a chiedere al Congresso una legge in tal senso soltanto l’11 giugno 1963, a quasi due anni e mezzo dal suo insediamento alla Casa Bianca, dopo che l’intensità e la visibilità sui media delle aggressioni cruente ai militanti nonviolenti del movimento nero gli avevano reso impossibile proseguire con un atteggiamento attendista circa le richieste degli afroamericani.

Kennedy non visse abbastanza per promulgare il provvedimento, approvato dal Congresso nel luglio del 1964. Il 22 novembre 1963 fu assassinato a Dallas in circostanze mai chiarite, che restano ancora oggi uno dei grandi misteri della storia americana. La morte così drammatica, sopraggiunta ad appena 46 anni, contribuì a determinare un processo di canonizzazione laica del presidente. Una volta scomparso Kennedy, nella memoria collettiva furono accentuati quei presunti tratti progressisti della sua proposta politica, soprattutto sulla questione razziale, che in realtà non avevano mai figurato in agenda.

Malgrado le ombre della sua amministrazione, Kennedy fu uno statista di razza. Erede di una delle famiglie più facoltose degli Stati uniti, concepì la politica come un servizio per la propria nazione. Dimostrò, quindi, una visione ben diversa da quella dell’attuale inquilino della Casa Bianca che, con le sue iniziative, pare aver capovolto il passo più celebre del discorso di insediamento di Kennedy: «Non chiedete cosa il vostro Paese possa fare per voi; chiedete cosa possiate fare voi per il vostro Paese».