Anche quando i romanzi di John Banville sono ambientati in Irlanda, il suo paese di origine non ne è mai protagonista, e i personaggi richiamano spesso tipi o figure proprie della letteratura mondiale: come in Nabokov o in Borges, anche in Banville il suo universo è più un paesaggio letterario che una versione fittizia del mondo reale; e questo ne fa uno dei grandi romanzieri del dopoguerra irlandese, che contrariamente a molti suoi contemporanei consapevoli del loro ruolo nella tradizione letteraria nazionale, ha un respiro letterario più internazionale. Suoi interlocutori, non meno di Joyce e Beckett, sono Nabokov, Camus, Ford Madox Ford.

Uscito in inglese sotto lo pseudonimo di B. W. Black, una via di mezzo tra il vero nome con cui pubblica i testi di carattere letterario e lo pseudonimo Benjamin Black che usa per la fiction poliziesca, Le ospiti segrete (traduzione di Irene Abigail Piccinini, pp. 366, € 19,00) è un romanzo che l’autore sembra considerare, al di là dei suoi indiscutibili meriti letterari, votato all’intrattenimento.

Personaggi pronti all’uso
È, in effetti, un divertissement basato sulla finzione storica secondo la quale durante la seconda guerra mondiale le principesse Margherita e Elisabetta (la futura regina Elisabetta II) sarebbero state segretamente spedite in Irlanda, allora neutrale, allo scopo di metterle al sicuro e proteggerle dai bombardamenti tedeschi su Londra. Pur con qualche ambiguità, l’Irlanda si mantenne neutrale per l’intera durata della guerra. Come finzione storica non è particolarmente credibile ma ad ogni buon romanzo è concesso un volo di fantasia che faccia da motore al racconto. L’invenzione e il resoconto di questa finzione occupano, nel caso delle Ospiti segrete, una parte significativa del testo, che rivelando solo man mano il gioco postmoderno dei generi letterari, spiega lo strano piacere che provoca, semplice e inaspettato com’è.
Com’è noto, le principesse reali rimasero in realtà a Londra durante il conflitto, ma la politica di evacuazione dei bambini adottata per proteggerli dalle bombe fece sì che molti di loro furono mandati in campagna, spesso da volontari senza alcun legame di parentela. Il contrasto tra la vita nei quartieri fumosi e affollati delle città industriali inglesi costantemente minacciate dalle bombe, e i piaceri della campagna, tra natura e idillio sarebbe stato all’origine di alcuni classici della letteratura inglese per l’infanzia, per esempio Goodnight Mr Tom di Michelle Magorian. Per i bambini sfollati, la vita della campagna acquisiva spesso le forme di un paesaggio sovrannaturale, come si legge nei romanzi di Mary Norton – Il magico pomo d’ottone e Falò e manici di scopa – o, nel caso forse più celebre di tutti, le Cronache di Narnia di C. S. Lewis.

Nell’adattare questo topos della finzione letteraria britannica a un contesto irlandese, Banville offre un ritratto dell’Irlanda dell’Emergenza: così venne chiamato, in quegli anni, il periodo della seconda guerra mondiale, un intermezzo storico raramente rappresentato in letteratura. Nel romanzo di Banville l’Irlanda incolore degli anni Quaranta assume le sembianze di un paese delle meraviglie pieno di strani abitanti e con qualcosa di gotico. È la combinazione postmoderna, tipica di Banville, di generi letterari ben riconoscibili a rendere questo romanzo tanto facile e piacevole. Nel leggerlo sembra di partecipare a una riunione di famiglia dei vari generi della fiction anglofona: l’omicidio nella casa di campagna inglese in stile Agatha Christie; il poliziesco americano; le biografie immaginarie della famiglia reale britannica dei romanzi Tudor di Hilary Mantel o della serie Netflix The Crown; la commedia di costume anglo-irlandese del XIX secolo, ambientata in un maniero avito con signori britannici creduloni, violenti ribelli repubblicani irlandesi e, a mediare tra loro, servitori furbi.

La fase dell’Emergenza
In parallelo al mix di generi letterari, anche il punto di vista narrativo salta rapidamente da un personaggio all’altro, come in uno zapping che non permette mai di fermarsi abbastanza a lungo per cogliere la profondità psicologica dei protagonisti. Anche qui, è evidente la consapevolezza della tattica adottata: i personaggi si presentano già formati, usciti belli e fatti da generi letterari conosciuti e quindi gradevolmente familiari. La maggior parte del testo è occupata dalla preoccupazione dei personaggi, impegnati a mantenere il segreto circa l’identità delle principesse, e dalle incomprensioni e tensioni che si sviluppano tra i vari protagonisti confinati a tale scopo in Clonmillis Hall.

Il libro offre un vivido ritratto dello strano, crepuscolare mondo dell’Emergenza irlandese, in un paese che traversava un momento di transizione, mentre il resto d’Europa veniva travolto dalla seconda guerra mondiale. Lo Stato indipendente non aveva nemmeno vent’anni; le affiliazioni politiche e religiose erano complesse e spesso conflittuali; persistevano le ombre della rivolta e della guerra civile; quel che rimaneva della nobiltà anglo-irlandese sconfitta era asserragliata nelle proprietà signorili; la classe ascendente della borghesia cattolica andava assumendo il controllo del governo ma non senza tensioni e difficoltà. L’atmosfera generale è evocata in modo vivace e puntuale, ma per Banville è soprattutto un palcoscenico dove mettere in scena i vari topoi della letteratura che egli riunisce con risultati esilaranti, come fossero lontani parenti costretti a sedersi allo stesso tavolo per un matrimonio di famiglia.

Una esperienza di attesa
Raccontando la storia delle due principesse e delle loro guardie del corpo – un detective protestante irlandese e uno spaesato e incapace membro femminile dei servizi segreti britannici – confinate per un periodo di tempo di lunghezza indeterminabile nella contea a loro estranea di Tipperary, incapaci di mettersi in relazione tra loro e ancora meno di stabilire rapporti sensati con gli improbabili abitanti, o anche solo visitatori, della casa signorile in cui si trovano rifugiati, Banville cattura con sorprendente esattezza il senso della lontananza del mondo reale dagli orizzonti sociali e personali, improvvisamente ridotti.

Letto in quarantena, come a me è capitato, il testo acquista una profondità inaspettata che l’autore non poteva certo immaginare. In quanto romanzo di clausura evoca la sensazione che il mondo vero si sia allontanato e che la realtà circostante sia irta di pericoli immediati e invisibili. L’esperienza fondamentale del romanzo, infatti, è l’esperienza dell’attesa, che non si sa quando e come finirà, in un conto alla rovescia la cui lunghezza è sconosciuta, con tutte le conseguenze inattese e le reazioni e i sentimenti che si affollano quando il corso abituale della vita viene improvvisamente sospeso.