È il 1971 quando John Baldessari realizza I will Not Make Any More Boring Art: una frase scritta a mano e ripetuta all’infinito, come d’uso in certe pratiche pedagogiche del passato, e che come un mantra canzonatorio riflette in forma autoreferenziale sui modi dell’arte concettuale stessa.

NON È ESPLICITO, naturalmente, quale fosse quell’arte «noiosa» a cui si fa riferimento: se quella concettuale stessa, parodiata attraverso la reiterazione del motivo, o se alludesse invece alla pratica della copia dai maestri che si chiedeva agli studenti d’Accademia, seguendo pedantemente un modello di riferimento dato dal maestro. Ai suoi studenti del Nova Scotia College of Art and Design di Halifax, aveva fatto riempire un’intera galleria proprio con questa scritta, amplificando l’estensione di significato di quell’operazione, che frattanto l’artista aveva trasformato in edizione litografica, insieme a un’altra opera edita da Prearo: Throwing Three Balls in the Air to Get a Straight Line (1973).

IN OGNI CASO, qualunque fosse il significato preferenziale di quella frase, questa era destinata a diventare un vero e proprio statement di uno dei più importanti artisti concettuali della scena mondiale (come attesta il Leone d’Oro alla carriera da parte della Biennale di Venezia, nel 2009), italiano per parte di padre e danese per parte di madre ma statunitense di nascita (era nato a National City, in Californi, il 17 giugno 1931) e di formazione (al San Diego State College).

DI CERTO LA SCRITTURA, e in particolare lo scrivere a mano con il suo portato di fisicità dell’espressione verbale caro alle pure esperienze verbovisuali, sarà un fondamento imprescindibile, seppur non l’unico, del lavoro di Baldessari, che da quelle premesse avrebbe dato vita ricerca intorno all’integrazione fra parola e immagine, di ibridazione dei linguaggi, di rispecchiamento semantico fra immagine fotografica e sua traduzione scritta.
Ceci n’est pas un pipe scriveva Magritte con ordinata scrittura sotto la riproduzione oleografica di una pipa; A glass is a glass o Wood is Wood, specularmente, scriveva Baldessari sull’immagine di un vetro o di un pezzo di legno, recuperando l’attualità de La Trahison des images del pittore surrealista belga e confermando la lunga durata di certe idee dell’avanguardia nel pieno del secondo dopoguerra: «le parole e le cose», con le loro relazioni reciproche e la possibilità di sovvertire e contraddire le convenzioni si dimostrano un tema di lungo periodo che portava quella commistione oltre l’idea di immagine posta sul piano cara a Greenberg. Eppure andava marcata una discontinuità.

NEL 1970, infatti, mette in piedi The Cremation Project: in una grande performance aveva bruciato tutti i suoi dipinti realizzati fino ad allora, cucinandone poi le ceneri per produrne dei biscotti, da distribuire fornendo le istruzioni per la loro eventuale consumazione. Un’immagine piena di eco dal passato, di sublime e catartica distruzione simbolica di un passato in favore di un nuovo inizio, ma anche forse di impossibilità di afferrare il presente con strumenti tradizionali: serviva un nuovo lessico capace di provocare inaspettate connessioni fra «alto» e «basso», fra il registro aulico delle arti e cultura di massa.

A POPOLARE IL MONDO di Baldessari, infatti, era un orizzonte complesso. Ne ha dato un’idea Soggettiva John Baldessari, la manifestazione della Fondazione Prada (già teatro di una sua importante mostra italiana nel 2011) basata sulla proiezione di dieci film selezionati dall’artista in forma di autoritratto tramite il cinema d’autore, chiusasi fatalmente a ridosso della dipartita dell’artista, avvenuta a Los Angeles il 5 gennaio 2020: nel suo canone di undici titoli, volti a restituire una pluralità di funzioni narrative e visive, i andava dal Mostro di Dusseldorf di Fritz Lang ad Alfred Hitchcock, passando dal Dracula di Tod Browning. Ma tutto questo confermava, in fondo, che l’arte e la parola che ne parla altro non sono che un modo di vedere meglio.