Diciamolo subito: l’idea di dividere in due capitoli la liberatoria «confessione» (seduta psicanalitica? Invenzione di sé?) di Joe, nella seconda parte interamente Charlotte Gainsbourg – che sostituisce anche nei ricordi narrativi Stacy Martin – al di là delle questioni distributive si accorda perfettamente al dispositivo del regista. Che come in ognuno dei suoi film, dai tempi del dogmatico-Dogma, si diverte a «giocare» con lo spettatore dettando le sue regole. Sta poi a noi accettarle, contestarle, opporvisi, inventarne a nostra volta delle nuove; è l’essenza del cinema stesso, solo che von Trier lo fa spesso con eccessi programmatici, e specie qui dove la provocazione assume contorni e modalità all’apparenza più «morbidi» che in passato.

Tra le due parti – per molti quasi in opposizione – non c’è in realtà grande differenza se partiamo dalle «regole del gioco», dall’uso cioè esplicito – e in chiave minimal – degli archetipi. Dunque, nella prima scorre la spensieratezza dell’adolescenza che nella seconda lascia il posto a quell’«età adulta» in cui si devono fare delle scelte. E come conciliare la missione di ninfomane con il ruolo di mamma, e un bebè che ti guarda torvo – «mi sentivo scoperta da lui» geme Joe – mentre l’amante divenuto marito non ce la fa, letteralmente, a soddisfare le sue esigenze spingendola a letto con altri maschi. Per esserne poi, ovviamente, geloso (siamo dalle parti delle poste del cuore) e avvelenarsi la vita. C’è poi un altro dato assai più serio: la nostra ha perso la facoltà di godere. Nulla neppure se si tortura la clitoride a sangue – «la mia vagina rimaneva muta».

Più che una punizione sembra una conseguenza: dopo avere sperimentato tutte le posizioni e le variazioni possibili, la noia e la delusione delle aspettative sono quasi inevitabili. E non funziona nemmeno l’«uomo nero» extra-dotato che si presenta con l’amico parlando un’altra lingua – cosa che lei speri la ecciti (!). A questo punto rimane solo andare oltre: cosa di meglio che l’S&M? Frustate che macellano le chiappe provocando finalmente l’orgasmo prolungato, e aprono le porte su uno spazio (sessuale) del possibile dove tutto-ma-proprio-tutto lo è. O lo diventa.
Von Trier però non è interessato all’erotismo, le sfumature ambigue del piacere non sono nelle sue corde, e questo lo avevamo già capito nella parte prima; la sua è una perlustrazione da entomologo del sesso che procede su delle certezze, talvolta persino luoghi comuni del sentire (le regole» del porno?), in cui le dissertazioni filosofiche di Seligman che ascolta cercando, in questa parte con un po’ più di impaccio, di smontare l’impeto denigratorio di Joe – forse i suoi colti riferimenti si sono persi nei tagli – e le parole della donna costruiscono dei «blocchi» riconoscibili di immaginario collettivo. Qui insieme al fantasma del sesso scarnificato al grado zero, scorrono i miti dell’umana conoscenza (nessuno mai casuale), Satana e Faust – il bimbo si chiama Marcel – fino a Messalina apparsa a Joe bambina durante un orgasmo con levitazione. E le autocitazioni del regista, come la madre Joe che mentre si fa frustare, il figlietto lasciato solo a casa rischia di volare dalla finestra – era l’inizio di Antichrist – anch’esse messe a nudo nello scheletro semplice,al punto che persino l’eroina di Onde del destino, sacrificata per far vivere il suo uomo, può essere rivista come una masochista.

Rispetto alla versione integrale del Volume I, i buchi comunque si avvertono. Non so se il director’s cut prevedeva anche nel Volume II le divagazioni dell’uomo – nel primo il riferimento alla pesca come metafora sessuale corredato di archivi – ma certo alcuni incontri e figure – tipo il personaggio di Willem Dafoe – appaiono un po’ «sbilanciati» narrativamente. Al tempo stesso «l’asciugatura» imposta dalla produzione – e accettata dal regista – sembra evidenziare ancora di più l’operazione di svuotamento delle categorie di cui si diceva. È come se von Trier ripercorresse i suoi film e i suoi personaggi da una prospettiva obliqua, spogliato dalla libido apertamente punitiva degli altri film, ma sempre frustrando in loro l’allegria del piacere. Cresciuti la ripetizione appare triste, e pure depressiva,. da cui l’opzione S&M, quasi uno spazio cinematografico del proprio desiderio (quello del regista?)
Il romanzo di formazione di Joe adulta assume il contorno del passaggio dalla chiesa orientale a quella occidentale in cui la metafora del Cristo esprime sadismo e violenza contro una dimensione più leggera. Eroina suo malgrado, si ritrova in quel vicolo buio, sporca e con la faccia pesta, raccolta da un vergine. Già perché il povero Seligman non lo ha mai fatto né con i maschi né con le donne, lui preferisce definirsi asessuato, una specie di alieno, ma anche l’unico in virtù di questa condizione in grado di ascoltare Joe. Sei una femminista – le dice ha rivendicato i tuoi diritti. Ma l’idea del regista – «il gioco» – non è proprio questa.

È Steligman lo spettatore – noi pubblico – e Joe von Trier? Non proprio. Lui si alterna tra i due per prevederne (a volte con scorrettezza) le mosse. Certo è Joe quando rivendica il «politicamente scorretto» del linguaggio (voglio dire negro), o quando la fa risorgere dalla rota da sesso rivoltandosi contro le bigotte. Ma dopo averla seguita la sua Joe per tutta una vita, come fa Steligman, le infligge infine un feroce sberleffo che arriva dal suo unico punto debole. E c’è da dubitare che quello schiaffo sia diretto a se stesso, lampo di una verità rispetto alle proprie immagini messe a nudo.

Hey Joe, occhio al cuore e alla pistola. Perché se è carica finisce sempre che spara. E’ la regola.

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