Joe Colombo (1930-1971) è stato, nel suo passaggio fugace sulla scena del design italiano, non solo un geniale precursore e una personalità singolarissima con la sua produzione di oggetti, sistemi d’arredo e monoblocchi, ma anche un designer che in maniera più evidente di altri, ha compreso aspetti e idiosincrasie della società italiana al termine degli anni della ricostruzione e già collocata in quelli del «miracolo economico». Non possedeva la carica eversiva di un Mari o l’ironia surreale di un Mendini (per citare solo due suoi coetanei), tuttavia ha espresso con coerenza la vitalità artistica e il desiderio di sperimentazione tecnologica che negli anni sessanta era presente a Milano.
A sfogliare il catalogo ragionato 1962-2020 a cura di Ignazia Favata – Joe Colombo Designer (Silvana Editoriale, pp. 304, € 85,00) –, ci si accorge di che sismografo stiamo parlando: prontissimo a registrare con una intensa e prolifica attività (in rapporto alla breve durata della sua vita) non solo la specie di oggetti che la casa della middle class doveva contenere perché se ne designasse l’identità, ma, non meno importante, quali configurazioni all’esterno di essa avrebbe potuto assumere la città dell’«era atomica».
Il catalogo Silvana ci dà l’opportunità di riconsiderare Colombo non in quanto «leggendario», piuttosto per restituirlo alla dimensione immanente di artista-designer, quale in effetti era, alle prese con un mondo che già conteneva tutti i segnali del disastro ecologico planetario del quale oggi siamo testimoni. Lasciamo quindi al collezionista il compito di apprendere la datazione, il codice e il nome della casa produttrice (ma perché solo quella cui spettano i diritti oggi?) relativi all’oggetto posseduto, e tentiamo qui di inquadrare il contributo complessivo di Joe e di spiegare l’utilità di averne catalogata l’opera quale ultimo tassello in ordine di tempo di un pregevole e già bene avviato progetto editoriale.
Si potrebbe partire da un confronto che sta nel mondo delle lettere e non delle cose. Si tratta di Elsa Morante, come Colombo immersa in quegli anni nell’«immaginario» e al tempo stesso, scrisse Garboli, «scrittore-poeta innamorato della realtà». Entrambi infatti sentono l’urgente necessità di reagire alla demente condizione del presente, che da un lato vede sullo sfondo il «suicidio atomico», dall’altro «la riduzione di ogni forma d’esistenza alle tetre cerimonie dello Sviluppo e del Consumo» (ancora Garboli).
La Città nucleare (1952) di Colombo, ideata sognando la mobilità e le reti dei servizi nel sottosuolo e con il nuovo tessuto edilizio sopra la «città vecchia», non contiene certo il presentimento tragico del testo morantiano Pro e contro la bomba atomica, ma illustra, con esuberante certezza, che un equilibrio tra natura e uomo è possibile: del resto, un ventennio prima, non l’aveva prefigurato già Wright, il maestro da lui preferito, con Broadacre City? Designer e scrittrice sono accomunati dal farsi «trascinare dall’immaginazione», la sola a riscattare la condizione problematica dei tempi presenti: anche se poi davanti alla cruciale domanda «che fare?» l’uno risponde con la fiducia nelle capacità programmatiche e risolutive del progetto, mentre l’altra interviene con quell’appassionato j’accuse.
Di quale fantasia fosse dotato, Colombo diede prova da giovanissimo. Con Enrico Baj e Sergio Dangelo fonda all’inizio degli anni cinquanta il Movimento Nucleare, il solo tra i movimenti artistici milanesi che sarà «in connessione, dal versante di un organicismo vitalistico e automatico, con le poetiche del surrealismo» (Vittorio Fagone ). Quando poi, circa un decennio dopo, andava a esaurirsi l’azione avanguardistica della pittura, Colombo lasciò il campo, diretto a misurarsi, da autodidatta, con il design. Occorre ricordare che siamo agli albori della formazione in disciplina del disegno industriale, che va dotandosi di una propria autonomia e identità. Bastò pertanto poco perché le forme primarie e organiche di Joe Colombo si dirigessero dalla pittura nucleare al design come nelle sedute (poltrona Elda, 1963; poltrona Tube Chair, ’69) o nei servizi da tavola (bicchieri Double, ’71). Accadde altrettanto con l’applicazione delle materie plastiche: dall’azienda paterna di conduttori elettrici ai prodotti in ABS per Kartell (carrello Boby, 1970) o per Elco-Bellato (carrello Robot, ’69). Lo stesso si può dire riguardo all’applicazione della «serialità strutturale», migrata dalle ricerche del Movimento dell’Arte Programmata – non solo del fratello Gianni – nei suoi disegni per l’industria.
È così che le «pulsioni immaginative» di Colombo si originano in una concatenazione singolare di eventi che condussero a una concezione spaziale ed estetica dell’abitare mai disgiunta dalla realtà urbana. Seppure «affascinato dai futurologi», come scrive Domitilla Dardi in catalogo, le sue proposte non ne condividono appieno né le prospettive, spesso distopiche, né i metodi. «Voglio parlare di ricerche sperimentali proiettate nel futuro – avrà modo di precisare – che non sono nate da fantasie formali o da fantascienza». Quando durante la X Triennale (1954), vede le sue tele accanto ai lavori del Movimento Internazionale per la Bauhaus Immaginista, è anche curioso spettatore al primo congresso dell’Industrial design che si organizza nel palazzo di Muzio. Finché si dipinge si può rifiutare qualsiasi regola, ma è il confronto con la serialità industriale che lo attrae ed è con essa che intende misurarsi.
L’apporto più innegabile che vi darà e che lo rende attuale oggi, è l’idea di flessibilità e di adattabilità nell’organizzare l’abitare, che dalla casa si estende alla città. Alle veloci trasformazioni sociali e alla progressiva perdita del lavoro dell’«operaio vivo» che «diventa attività della macchina», per dirla con il Marx dei Grundrisse, Colombo risponde, rifiutando la staticità del prodotto, con soluzioni più complesse quali le «strutture abitabili»: qualcosa di diverso dall’oggetto tipizzato, e il tentativo di evitare la totale integrazione del designer con l’industria.
Nel 1972, invitato al MoMA da Emilio Ambasz per la mostra Italy, New Domestic Landscape, egli illustrerà questa sua concezione dell’habitat presentando quattro monoblocchi (Kitchen, Cupboard, Bed and Privacy, Bathroom), che seppure non più in produzione – come si evince dal catalogo –, rappresentano l’espressione più matura dell’«antidesign». È l’habitat, per Colombo, a dover «rispondere alle funzioni fisico-psicologiche, alla natura introversa ed estroversa dell’uomo». L’arredamento sarà destinato a sparire, l’habitat «sarà dappertutto». Non c’è posto né per l’autocostruzione, perché la serialità industriale è una condizione incontrastabile, né per elitarie invenzioni ludiche o simboliche, perché le relazioni tra arte e tecnica non si risolvono nel linguaggio. Per Colombo, piuttosto, è il metodo che s’impone sopra ogni cosa.
Non è un caso che sia stato Munari il collega a lui più vicino. Insieme hanno dimostrato, pur nella loro differenza d’età e d’interessi, l’importanza del processo progettuale per definire con coerenza il prodotto industriale. Ciò che distingue, infatti, il designer dall’artista, come disse proprio Munari ricordando Joe, è che il primo «non ha stile, perché il designer progetta per dare uno stile a un prodotto o a un’azienda». Il suo lavoro si riconosce per i «valori oggettivi»; quanto poi questi siano aleatori e contraddetti, è una questione aperta: che come ci ricorda Colombo, va oltre sia la «casa-contenitore», sia l’arredo, suo «contenuto».