“In Italia non è ammissibile una intercettazione sistematica delle telefonate di lavoro da parte dell’azienda. Il presupposto per un qualsiasi intervento di accesso alle informazioni del lavoratore è che questo venga preceduto da un’informazione al lavoratore”. Le rassicurazioni di Antonello Soro al Gr1 sono le benvenute. Ma intanto la notizia della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul licenziamento di un ingegnere rumeno, che ha utilizzato il sistema di messaggistica dell’ufficio per comunicare con fidanzata e fratello, è diventata subito un casus belli per alimentare la discussione, in Italia, sul jobs act. Questa volta nella delicatissima questione della ricerca di un punto di equilibrio fra diritto alla riservatezza e doveri contrattuali. Aspetto che i tanti critici del jobs act, Cgil in testa, denunciano. Al pari del resto della normativa.
Il Garante della privacy Soro puntualizza: “La nuova normativa sulla privacy contenuta nel jobs act rinvia al codice della privacy a tutela del lavoratore. Fra queste tutele c’è l’informazione da parte del datore di lavoro sull’utilizzo degli strumenti aziendali come computer, smartphone e altri”. In aggiunta, Soro contestualizza il caso: “Quello dell’ingegnere rumeno è un caso specifico di un lavoratore che nelle ore di lavoro faceva altro. L’azienda ha prima riscontrato una caduta verticale della produttività, poi è andata a verificare la causa”.
La vicenda conserva però un retrogusto acido. I giudici di Strasburgo della Corte europea dei diritti dell’uomo, cui si era rivolta l’ingegnere licenziato, in questa occasione erano chiamati a discutere del caso perché il lavoratore aveva opposto al provvedimento una violazione del diritto alla privacy. Secondo l’ingegnere, i tribunali rumeni avrebbero dovuto dichiarare nullo il suo licenziamento, perché arrivato dopo una scorrettezza aziendale. Lesiva dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti umani, che tutela il rispetto della privacy per quanto riguarda la vita privata, familiare e casalinga, e la relativa corrispondenza.
La risposta dei giudici, le cui sentenze hanno riconosciuto valore politico ma non sono vincolanti per i tribunali delle nazioni Ue, parte dal riconoscimento che la giustizia romena abbia raggiunto un equilibrio tra il diritto alla privacy del dipendente, e gli interessi del suo datore di lavoro. Poi, sul punto, ricorda: “Non è irragionevole che un datore voglia verificare che i dipendenti portino a termine i propri incarichi durante l’orario di lavoro”. La replica aziendale di fronte ai giudici era appunto quella di una caduta della produttività, che avrebbe allarmato i datori di lavoro dell’ingegnere. Tanto da far loro controllare l’account di posta elettronica a lui assegnata.
Su questo punto, la Corte di Strasburgo rileva che i contenuti delle comunicazioni private trovate dall’azienda durante il controllo della messaggeria interna Yahoo non sono state usate dal tribunale rumeno come sostegno al licenziamento. Ben più arduo validare il passaggio secondo il quale l’analisi da parte del datore di lavoro sia stata fatta con la convinzione di trovare solo mail professionali: in caso contrario – come poi avvenuto – l’azienda avrebbe infatti accusato il dipendente anche di aver infranto le regole interne.
Alla fine la decisione è stata presa sei contro uno. Ma potrebbe bastare a sancire un precedente? Per certo, sui controlli a distanza, già a settembre il Garante italiano aveva segnalato con lettera ufficiale che i decreti attuativi del jobs act portavano a poter utilizzare dati ottenuti per i controlli, per valutare “l’inadempimento contrattuale del lavoratore”. Mentre ieri il Garante Ue, il magistrato italiano Giovanni Buttarelli, da 26 anni fuori ruolo (caso all’attenzione del Csm), ha minimizzato: “La sentenza non ha detto di spiare da oggi in poi tutti i dipendenti”.