L’arte se la prende ancora una volta con la «solidarietà selettiva» degli europei, quella dell’accoglienza con tanti se e altrettanti ma. Emblematica a questo proposito l’installazione di Šejla Kameric EU / Others (2000) realizzata per la Biennale di Lubiana. Allora l’artista bosniaca aveva impiegato la segnaletica aeroportuale per dividere i cittadini Ue dagli «Altri» tout court. Ma la cernita tra buoni e cattivi resta una pratica tremendamente attuale. E visto che ormai il danno è stato fatto, anzi, continua ad essere fatto, tanto vale tentare di scusarsi, come ha fatto la polacca Joanna Rajkowska, classe 1968. Ci ha provato con l’installazione Sorry visibile dalla fine di giugno presso la rotonda Kaponiera nella città di Poznan.

Trattasi di un intervento a prima vista discreto ma che osservato dall’alto si rivela in tutta la sua ironica brutalità: le 48 lastre di cemento installate sulla pavimentazione dello spiazzale formano la scritta «Sorry». «E un progetto che risale al 2016 quando vivevo nel Regno Unito e la retorica anti-immigrati stava per raggiungere il proprio culmine prima della Brexit. Ma ora è ovvio, che con i respingimenti dello scorso anno al confine tra Polonia e Bielorussia e la successiva crisi umanitaria ucraina, Sorry assume una valenza diversa, o quanto meno, più complessa». L’opera, realizzata insieme alla Fondazione Vox Artis e alla curatrice Monika Branicka, è incentrata sul tema delle barriere, quelle invalicabili, che non si presentano come tali ad occhio nudo e al livello del terreno. Il loro vero significato può essere colto in pieno soltanto da chi sta dalla parte del potere e «vive nei piani alti» oppure tramite un drone. «Per molti immigrati provenienti da paesi post-coloniali, l’Europa si configura come una fortezza inespugnabile. Da anni guardo canali come Al Jazeera per imparare a guardare la realtà da un punto di vista non strettamente europeo», confessa Rajkowska.

Inevitabilmente il discorso vira sulle politiche di accoglienza della destra populista di Diritto e giustizia (Pis) nel suo paese prima di quella a braccia, quasi sempre aperte, dei rifugiati ucraini: «La crisi al confine bielorusso peggiorava di giorno in giorno. Da un punto di vista politico, noi polacchi ci siamo ritrovati in un’impasse senza una soluzione. Sapevamo che il governo non avrebbe aperto le porte per nessun motivo al mondo ai quei profughi mediorientali affamati e a rischio assideramento provenienti dalla Bielorussia. I respingimenti sono andati avanti per mesi. Gli attivisti hanno fatto quello potevano l’autunno scorso», racconta l’artista polacca senza fare nulla per nascondere la sua rabbia. Le scuse della Rajkowska hanno il retrogusto amaro dell’impotenza di chi si trova a chiedere perdono senza poter cambiare le cose. Ma torniamo alla genesi del progetto: «Negli anni precedenti alla Brexit il governo dell’allora premier Theresa May aveva varato una politica ambientale «ostile» nei confronti degli stranieri. Questa politica ostile era stata accompagnata dalla nascita di un’architettura altrettanto ostile.

Si pensi agli spuntoni anti-senzatetto diffusi un po’ ovunque negli ultimi anni. In un certo senso, anche le transenne e le barriere stradali che circondano il Sejm, la camera bassa del parlamento polacco, e gli altri edifici governativi nel mio paese, erette per arginare le proteste, costituiscono un esempio di architettura ostile». Ma sono i muri anti-migranti innalzati sempre più spesso in Europa a fornire l’esempio di architettura ostile per eccellenza. E soltanto per caso che Sorry è stata inaugurata proprio nel periodo in cui il governo polacco ha annunciato il completamento, apparecchiature elettroniche di sorveglianza escluse, di una barriera di 187 km lungo il confine con la Bielorussia. Le lastre che compongono l’installazione sono sormontate da cocci di vetro, un strumento di dissuasione vecchio come il cucco e diffuso in tutto il mondo. Ma ormai i tempi sono cambiati: «Le spirali di concertina fatte di fili con lame di rasoi sono sempre più diffuse. Il filo spinato è un business gigantesco.

La Polonia ad esempio ospita la Gc Metal, una delle più grandi aziende del settore». La società che può vantare tra i suoi clienti anche la Nato ha sede nel villaggio di Wysogotowo nel cuore del paese, ad una decina di chilometri da Poznan, con cui Rajkowska sembra avere un conto aperto da artista. «Proprio in questa città una decina di anni fa non sono riuscita a portare a termine un progetto che mi stava particolarmente a cuore. La trasformazione della ciminiera di una vecchia fabbrica di carta in un minareto. Avevamo pensato anche ad una versione più leggera dell’installazione con delle luci a LED al posto dei materiali edili. Addirittura, esisteva una terza variante che sarebbe consistita in una serie di attività educative senza alcun intervento architettonico. Alla fine l’iniziativa non è andata in porto soprattutto a causa dell’opposizione da parte del clero».

Tra le opere più celebrate dell’artista originaria di Bydgoszcz, c’è senza dubbio, Greetings from Jerusalem Avenue (2002), una palma gigante artificiale che è rimasta lì dov’era diventando parte integrante del corredo urbano di Varsavia. Per la sua ultima opera le aspettative sono diverse: «Sorry meriterebbe di trovare una dimora stabile davanti alla sede di Frontex, di un ministero degli esteri o di qualsiasi altro ente coinvolto nella sciagurata politica migratoria in atto sul nostro continente. So che la Fundacja VOX Artis vuole portare l’installazione in giro in altre città». Prossima tappa proprio nella capitale polacca a settembre dove l’opera verrà esposta davanti alla sede dell’Università di scienze sociali e umanistiche.