Di lei chi non ricorda l’enorme lampadario appeso all’ingresso delle Corderie, in occasione della Biennale 2005? Luccicava e abbagliava gli occhi, creando un’illusione; in realtà a risplendere erano gli involucri di plastica di 14mila tampax che componevano la scultura di Joana Vasconcelos. Era la prima Biennale con due curatrici, Rosa Martinez e Maria de Corral; Barbara Kruger aveva preso il premio alla carriera, e quel suo manufatto, tanto sontuoso quanto ironico, era diventata l’icona di quella Biennale.

Sono passati quasi venti anni e Vasconcelos non ha smesso di inventare forme e installazioni che lasciano a bocca aperta, salvo poi attirare chi le osserva in percorsi non preventivati. Il successo infatti non ne ha incrinato quella vocazione antagonista, per quanto sempre ammantata a festa. Vasconcelos in queste settimane è stata in Italia, invitata a proporre due grandi installazioni a Napoli e Siracusa, sempre con la curatela di Demetrio Paparoni. Ed è stata questa l’occasione per incontrarla.

A Napoli, ha posizionato un grande cuore fiorito e pulsante, che occupa il centro del chiostro di Santa Caterina a Formiello, per la mostra Interaction (visitabile fino al 17 settembre), alla Fondazione Made in Cloister. A Siracusa, al Museo archeologico Paolo Orsi invece ha «incoronato» un antico idolo cicladico del terzo secolo a.C. con una installazione polimaterica. The Crown (fino al 26 luglio) è il titolo dell’opera che Vasconcelos aveva proposto nel 2012 in occasione dei 60 anni di regno di Elisabetta. «C’è un’analogia con l’idolo cicladico – spiega con un sorriso – Elisabetta ha regnato più a lungo di ogni altra regina inglese. Anche lei è un simbolo associabile all’eterno».

Per incoronare un’idea di eterno lei ricorre a materiali molto frugali, spesso di riuso. È un contrasto voluto?

Per me non c’è contrasto. Credo che il quotidiano e tutto ciò che lo riguarda abbia una sua regalità. Sono molto legata alla fisicità delle cose, alla loro concretezza che per me è sempre piena di fascino. Ci sono tante pratiche tradizionali che io associo immediatamente a un’idea di bellezza. Poi penso che materiali come quelli che uso avvicinino il pubblico alle opere, creando una relazione di famigliarità. Del resto io lavoro per trasmettere una felicità. La felicità per me è la premessa di un cambiamento. È possibilità di cambiamento.

Le due recenti installazioni realizzate in Italia confermano la sua predilezione per il barocco…

Sono portoghese, per quanto sia nata a Parigi, e ho nel sangue non tanto il barocco in senso generico, ma «quel» barocco che ha segnato la storia e la fisionomia culturale del mio paese. In Portogallo si è sviluppato in modo diverso che da voi. È una forma di cultura sincretica nella quale confluivano tutte le tradizioni che approdavano sulle nostre coste. Tra XIV e XVIII secolo si è plasmato un linguaggio che mi appartiene e che cerco di attualizzare. Del resto, ancor oggi quando si entra in una casa portoghese, ci si può trovare davanti allo stesso modo una Madonna, un Buddha o una maschera africana. Sono storie che convivono e che rispondono tutte a un bisogno di spiritualità.

Come si è trovata in due città come Napoli e Siracusa, dove domina un barocco più cattolico e mediterraneo?

Mi fa un effetto impressionante, ma non mi appartiene. I materiali stessi, come il marmo, la pietra o il bronzo non fanno per me. Il mio barocco si nutre di materiali poveri, come è sempre stato nella storia culturale del mio paese. Domina il legno, impreziosito dall’oro. Ma spesso ci troviamo davanti ad innesti di altri materiali. È barocco sincretico anche dal punto di vista concreto…

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A proposito di sincretismo, nell’allestimento di «The Crown» al Museo archeologico di Siracusa ha inserito anche una statuetta della Madonna di Fatima. Come mai?

Non sono cattolica, ma sono molto affezionata a fenomeni di religiosità popolare come Fatima. È una religiosità che parla al cuore delle persone. Nel 2017 ho realizzato una grande installazione davanti al santuario: è un rosario alto oltre 25 metri, con 60 misteri, come quelli rivelati dalla Madonna ai pastorelli. I grani sono in plastica e hanno all’interno una luce fluorescente come quella che si ritrova spesso nelle immagini della Vergine di Fatima. Per me quella luce ha a che vedere con la relazione tra il cielo e la terra.

Come artista donna, ha conosciuto un grande successo. Crede che nel mondo dell’arte ci sia più equilibrio di genere oggi?

Non lo credo. Non ci si rende conto di quanto pesi il dominio degli uomini anche nel nostro campo. Per questo con il mio lavoro cerco di mettere sempre le donne al centro. Anche a Siracusa ho chiesto che, oltre all’idolo che è donna, la mia installazione fosse circondata da busti di divinità femminili. Le abbiamo scelte all’interno delle raccolte del museo insieme all’archeologa Anita Crispino. Lo scorso anno sono stata invitata a pensare un progetto per il MassArt Museum di Boston. Ho voluto fare un’opera che fosse un omaggio a una donna che ha segnato la storia del Massachusetts. È Elizabeth «Mumbet» Freeman, la prima donna schiavizzata dalla nascita che pur non sapendo né leggere né scrivere ha usato l’ingegno e la determinazione per ottenere la libertà, intentando e vincendo una causa contro il suo padrone. Così è nata l’opera Valkyrie Mumbet.

Quali artiste sono state più importanti per la sua formazione?

Sono tante. Se devo fare qualche nome direi, Paula Rego e Vieira de Silva che sono portoghesi come me. E poi Annette Messanger, un’artista a cui ho guardato sempre con ammirazione.