Prima dell’annessione alla Casa del Topo, prima del Marvel Cinematic Universe, prima del fumetto come Dna dei super-eroi del merchandising, c’erano loro. Un manipolo di autori classe 1950 pronti a varcare i confini della cosiddetta Età dell’Oro dei comics nei primi Anni Settanta per scardinare l’universo degli uomini in calzamaglia. Tipi come Jim Steranko, Howard Chaykin, Walter Simonson. E Jim Starlin. Disegnatore e sceneggiatore, tessitore di trame dal retrogusto psichedelico, character designer e vero guastatore del fumetto a stelle e strisce. Si presenta in un camerino di Lucca Comics & Games 2019 con la nonchalance di chi non sente il peso della gloria.

«BEL POSTICINO, la Marvel dei Seventies. Quando ci arrivai, i grandi degli Anni ’30 come Jack Kirby, Steve Ditko e Joe Kubert erano ormai quasi pronti alla pensione. Ma alle loro spalle premeva una generazione di autori intorno ai vent’anni, tutti lì a sgomitare per proporre materiale buono quanto il loro, e possibilmente migliore. Era un’impresa, ma oltre che alle tante storie fantastiche lette fin lì ci ispiravamo alle suggestioni del nostro tempo, come le illustrazioni di Peter Max o le copertine rock di Roger Dean, senza dimenticare l’arte classica di Tiepolo e Michelangelo». Contava anche la fortuna, dato che all’epoca la Marvel stava triplicando il numero delle testate, «e arruolava chiunque sapesse tenere in mano una matita». Uno stanzone, un manipolo di giovani leoni della Nona arte più Stanley Martin Lieber, alias Stan Lee: una combinazione esplosiva, più forte di ogni soggezione.

Il ‘cattivo’ Thano

«ALL’INIZIO, Stan ti intimidiva: era un genio ed era il boss. Tutto quello che sapevo sui fumetti l’avevo imparato da lui. Ma non era tipo da darsi arie. Anzi, era molto, molto divertente. Come ogni attore frustrato, non si limitava a passarti le sceneggiature, ma le recitava. Un appuntamento che illuminava la giornata, tanto da convincermi a rifiutare ogni offerta concorrente». Ma poi la relazione con «Il Sorridente» si fa più tormentata, fino a interrompersi con il passaggio di Starlin alla DC Comics. «In realtà, Marvel e DC hanno molto in comune. Un sacco di personaggi fantastici con cui giocare e un sacco di editor sgradevoli con cui confrontarsi. Come carattere, personalmente non sono uno cui piace farsi dare ordini… e gli editor con cui ho lavorato meglio nel corso della mia carriera sono quelli che mi hanno lasciato fare».

E AGGIUNGE: «Per molti altri, questo è inconcepibile, per loro l’autore è poco più che un pupazzo da ventriloquo cui far mettere in bella le proprie idee. A parte questo, in Marvel si bada più alle vendite, mentre alla DC c’è un clima più aperto verso tematiche più controverse». Come la morte, una costante di tante storie firmate dall’autore di Detroit. «Prima degli Anni Settanta», spiega Starlin, «la morte era un evento totalmente inedito per i personaggi dei fumetti. In genere, si trattava di un destino riservato soltanto agli antagonisti o ai personaggi di contorno. Ma per citare Norman Mailer, “Ogni storia vera si conclude con la morte”. E a me, sempre affamato di stimoli nuovi, inizialmente questo tema intrigava. L’ho accarezzato con Warlock, a conti fatti un paranoico schizofrenico con tendenze suicide che alla fine corona il suo sogno. Poi, è capitato che la Marvel volesse disfarsi di Capitan Marvel per sostituirlo con un personaggio femminile, e visti i precedenti mi hanno affidato la questione. A un certo punto mi avevano chiesto di far fuori anche il maestro del kung-fu Shang-Chi, ma il gioco cominciava a stufarmi, così ho rifiutato. Però non è che la tematica della morte mi affascini particolarmente: come si dice, mi ci sono trovato».

FRA I TANTI cadaveri eccellenti seminati fra le pagine dei comic books, il più illustre è di sicuro quello di Jason Todd, erede del Robin originale Dick Grayson e protagonista suo malgrado della memorabile saga di Batman Una morte in famiglia. Un caso più unico che raro di «omicidio a fumetti», materialmente compiuto da Joker ma sancito dal televoto di oltre 10 mila lettori. «Quello è stato un caso particolare, ricordo di essere rimasto molto sorpreso dalla partecipazione del pubblico e dallo scarto minimo fra i due «partiti» della vita e della morte: vinsero questi ultimi, ma con una differenza di 72 voti. Sfortuna vuole che il personaggio fosse un beniamino dei più piccoli, senza contare il suo ruolo nel merchandising tra giocattoli, abbigliamento e quant’altro… e avendo scritto Una morte in famiglia, alla fine ho pagato per tutti, perché da quel momento in poi la DC ha progressivamente ridotto le mie collaborazioni fino ad azzerarle».

RIMBALZANDO fra saghe cosmiche, giungle urbane e gesta epiche, in 45 anni di attività Starlin ha creato o rilanciato personaggi che anche grazie al suo contributo sono ormai icone pop. Paradossalmente, però, a imprimere il suo nome a lettere di fuoco nella storia dell’intrattenimento è un personaggio controcorrente quanto l’autore, il cattivo Thanos. «Sì, è il mio preferito, forse anche perché si tratta del mio primo contributo originale per la Marvel. Nasce da un’idea che avevo elaborato al liceo e avevo già inserito nel mio portfolio prima del mio esordio. Lo feci debuttare in una storia di Capitan Marvel, poi su Silver Surfer, e andò benone… così a un certo punto la Marvel mi ha chiesto di lavorare direttamente sulle sue storie “a solo”». Una decina di saghe, che hanno figliato il cattivo dei due blockbuster dei Russo Bros. Avengers: Infinity War e il recente Avengers: Endgame. Convocato sul set per un cameo all’inizio della lavorazione, Starlin sapeva come sarebbe finita la storia già due anni fa: «Ma ho tenuto la bocca cucita. Avevo firmato un accordo di riservatezza… e poi mi divertivo troppo a origliare le conversazioni dei fan durante le convention e a ridermela sotto i baffi». Perché quando sei nato guastatore, non è che ti ramollisci con gli anni».