Più che fantastica, la vita di Jeff (Jim Carrey) titolare di un programma tv per bambini – Il fantastico mondo di Mr.Pickles – è un campo minato di tragedie famigliari, malattie, depressione, delusioni amorose ed esistenziali. Per i giovani fan del suo show ostenta solare ottimismo, tenerezza e fantasia, ma al contempo deve misurarsi con gli imperscrutabili patimenti e con le ipocrisie della vita quotidiana.
Nel panorama televisivo Kidding (giunta alla seconda stagione, presto su SkyAtlantic) rimane un oggetto unico ed originale. La serie è impostata su un personaggio ricalcato in apparenza su Mr Rogers, il conduttore televisivo oggetto anche della recente fiction biografica con Tom Hanks (Un amico straordinario). Ma Jeff Piccirillo, interpretato da Carrey e creato da Dave Holstein e Michel Gondry, è alle prese con l’implosione della propria vita e salute mentale, pur se nel caratteristico registro surreale del regista francese. Intraprende così un arco drammatico che alterna autodistruzione e commedia, oltre alla farsa e il musical, con partecipazioni eccellenti fra cui Dick Van Dyke, Ariana Grande e Frank Langella. Un’operazione straniante e geniale, non senza qualche sovrapposizione con aspetti della vita dello stesso attore, che ha anche lui intima dimestichezza con demoni interiori.

Di questi tempi oltre a Kidding e film come il recente Sonic, la vita di Carrey è fatta dei quadri satirici che dipinge contro Trump e il suo regime – anche se a noi dice «in generale ho deciso che la cosa peggiore da fare con dei narcisisti patologici è occuparsi sempre di loro. Meglio far parlare il voto». La pubblicazione del suo romanzo autobiografico è prevista per maggio.

Cosa pensa della seconda stagione di «Kidding»?
Mi sembra che l’arte più straordinaria sia sempre stata prodotta da artisti che si sono persi completamente nel momento presente. Ci sono Michel Gondry e Dave Holstein, che è un genio folle ed assoluto. Poi nel mix ci sono anche io e insieme cerchiamo di forzare i limiti in ogni direzione. Abbiamo già pronte delle idee pazzesche mai viste prima in tv – se mai ci consentiranno di proseguire oltre la seconda stagione.

Non siete preoccupati di avventurarvi su un terreno troppo doloroso anche per il pubblico?
Mi considero un artista e credo che il ruolo degli artisti sia di rispecchiare il mondo. E non c’è nessuno che non abbia attraversato le cose che Jeff affronta in Kidding. Tutti nella vita conosceranno il lutto, i genitori che invecchiano: è la vita. A volte un messaggio può essere sgradevole ma credo che il pubblico finisca per recepire la verità – subito o forse più in la. È come quando leggi un libro e poi magari lo riprendi in mano dopo qualche tempo e cogli un senso completamente diverso. Per me si tratta di prendere qualcosa di doloroso e trasformarlo, farne qualcosa di bellissimo e leggero. Il punto è questo: prendere quel casino che è l’umanità e trasformarlo in un gioco di marionette.

A maggio uscirà la sua autobiografia, descritta come «romanzo semi autobiografico su apocalissi dentro e fuori».
È una delle cose più speciali che abbia fatto. Credo che tutte le memorie siano un misto di realtà e finzione. Al minimo si tratta di un riordinamento degli eventi di una vita per renderla interessante. La mia affronta l’assurdità del trattamento che viene accordato alle celebrità, ed a me in particolare. Inoltre racconta di quando ho provato il cataclisma della fine del mondo. Quando ero alle Hawaii, durante il falso allarme missilistico (nel gennaio 2018 un’azienda telefonica diramò per errore il seguente allarme agli utenti: «Le Hawaii sono sotto attacco missilistico. Cercate riparo immediato. Questa non è un’esercitazione», seminando il panico, ndr), sono stato chiamato dalla mia assistente, Linda: era dall’altra parte dell’isola e stava singhiozzando. Mi ha detto che avevamo dieci minuti prima dell’arrivo dei missili. E in quel momento riuscivo solo a pensare: «Ma che strano modo per finire» – era più che altro una specie di perplessità. L’assistente mi diceva che saremmo dovuti salire subito in macchina e dirigerci verso un punto di ritrovo, ma mi sono detto che non avrei voluto morire in macchina. Non riuscivo a telefonare a mia figlia, non c’era modo di lasciare l’isola in tempo. Allora ho pensato di mettermi sotto le scale, ma poi mi sembrava morire come uno scarafaggio. Alla fine ho deciso di sedermi lì dov’ero. Mi sono seduto e mi sono detto: «Ma che posto meraviglioso». Nel libro poi racconto di come la mia assistente, Linda, mentre parlavamo su FaceTime stringeva così forte il telefono che senza volerlo ha scattato un fermo immagine – e l’abbiamo usato perla copertina del libro, in cui c’è la mia faccia in quelli che pensavo fossero gli ultimi dieci minuti che mi rimanevano da vivere. Sono andato a casa e l’ho dipinta coi colori degli acquarelli tropicali.

C’è ancora posto per i clown in questo mondo?
Per i clown non so, molta gente sembra esserne terrorizzata (ride, ndr). Ma credo che fare il clown sia sempre importante. È fondamentale auto ironizzare e perfino apparire ridicoli. Per me è importante burlarmi delle mie debolezze e a volte di quelle degli altri. È essenziale poter ridere. Se smettiamo di ridere è finita. Se non ridiamo siamo spacciati come specie.