La notizia è arrivata domenica, durante la conferenza stampa finale del festival – che si è chiuso ieri – spiazzando almeno secondo «Variety» che è stato il primo a riportarla anche i collaboratori più stretti: Jia Zhangke ha annunciato le proprie dimissioni dal Pingyao Film Festival che ha fondato e ideato insieme a Marco Müller – che ne è il direttore artistico – quattro anni fa nell’omonima cittadina dello Shanxi, la regione natale del regista che tante volte è stata il paesaggio narrativo dei suoi film. «Spero in futuro di tornare qui come spettatore» avrebbe detto Jia Zhangke. Cosa è accaduto? Il festival di Pingyao nonostante le restrizioni di viaggio dovute alla pandemia – in Cina è obbligatoria una quarantena di quindici giorni e gli accessi nel Paese sono regolamentati da un iter molto severo – è stato un successo anche questa edizione, in un momento che vede una forte ripresa delle sale cinematografiche cinesi – aperte al 75% grazie ai bassissimi numeri di contagi sul territorio – a differenza di quanto accade nel resto del mondo, Europa e America soprattutto – l’ultimo fine settimana in Cina ha registrato quasi due miliardi di incassi. Non solo. Grazie all’ottima qualità delle selezione che nonostante le «costrizioni» imposte dalla censura ha negli anni proposto gli sguardi più nuovi, eccentrici e indipendenti del cinema contemporaneo – per l’Italia c’erano quest’anno The Book of Vision di Carlo Hintermann e Spaccapietre di Gianluca e Massimiliano De Serio – Pinyao ha costruito un pubblico appassionato, con giovani che arrivavano da tutta la Cina per scoprire opere altrimenti invisibili.

BASTA GUARDARE i titoli di questa edizione, film che sanno raccontare il mondo, sguardi critici, mai convenzionali nei titoli internazionali come il vincitore del Rossellini Award per il miglior film nella sezione Crouching Tiger, The Waler Boy o quello per il miglior regista nella stessa sezione, Oasis di Ivan Ikic. E ancora, tra le proposte cinesi film The Best is Yet to Come di Wang Jing, che ispirato alle vicende di un giornalista cinese negli anni Novanta diviene una lezione mai paradigmatica sul senso del fare informazione nell’era delle fake news. Mama di Li Dongmei, Fe Mui Award per il miglior film, il viaggio nella Cina rurale alla fine del secolo scorso di una ragazzina con la madre e le sorelle. Mentre nella sezione Gala gli spettatori sono impazziti per Sweet Thing di Alexandre Rockwell, la fuga di tre ragazzini in un’America «outsider» vista come l’antitesi a Trump.

DUNQUE? Sarebbe difficile a fronte appunto di tale riuscita pensare a un festival «alternativo», direttamente gestito come si è detto ieri da «apparati governativi», senza dimenticare che il nome di Jia Zhangke ha una risonanza mondiale. Di certo le dichiarazioni del regista sono motivate da ragioni serie, o quantomeno esprimono degli attriti su questioni che sono importanti. E che forse era necessario sollevare lanciando dei segnali fin troppo espliciti per proseguire il lavoro. A questo punto si deve aspettare ma il festival così come è strutturato ora è un patrimonio troppo importante – anche per le economie del luogo – per essere rimpiazzato da una copia.