A maggio uscirà negli Usa per Knopf l’ultimo romanzo di Jhumpa Lahiri, Whereabouts. Inutile però chiedersi quando lo potremo leggere nella traduzione italiana: com’è noto agli estimatori nostrani della scrittrice indo-statunitense (premio Pulitzer nel 1999 per il suo esordio, la raccolta di racconti L’interprete dei malanni), il libro è infatti nato in italiano con il titolo Dove mi trovo (Guanda 2018).
A tradurlo ora in inglese è stata la stessa Lahiri e negli Stati Uniti se ne parla da mesi: varie testate importanti, da Time a Vogue, lo hanno inserito nella lista delle uscite più attese di quest’anno, e nei giorni scorsi Publishers Weekly ha pubblicato un’intervista all’autrice intorno a quello che il giornalista Daniel Lefferts definisce «un esperimento audace» – appunto la scelta di abbandonare la lingua egemone per un’altra, forse fascinosa, ma certo non potente quanto l’inglese, almeno in termini editoriali.
Lefferts non lo scrive apertamente, ma il dubbio si percepisce sottotraccia in tutto l’articolo, anche quando si riveste di elogi: «Nel tentare questa impresa – scrive il giornalista – Lahiri si unisce a un gruppo sparuto di scrittori – tra cui Samuel Beckett, Vladimir Nabokov e lo scrittore argentino J. Rodolfo Wilcock – che hanno imparato nuove lingue, composto testi in quelle lingue e poi li hanno tradotti nelle loro lingue principali».

Dove già il termine «impresa» tradisce una stupita ammirazione che diventa scoperta perplessità nel constatare che l’uso dell’italiano ha influenzato lo stile di Lahiri: «I fan della scrittrice saranno contenti dell’uscita di Whereabouts, il suo primo romanzo in otto anni, ma potrebbero essere sorpresi dal tema e dallo stile del libro. Tradizionalmente la narrativa di Lahiri è incentrata sull’esperienza degli immigrati indiani negli Stati Uniti e dei loro discendenti… Whereabouts, al contrario, parla di una donna italiana, una persona che non vede l’ora di staccarsi dal suo luogo di nascita, e non una che lotta per inserirsi nel suo ambiente adottivo», senza contare che, «con poco più di 150 pagine, il libro è insolitamente breve».
Da parte sua Lahiri non fa molto per diminuire lo sconcerto del suo interlocutore, anzi. Parlando con Lefferts «paragona l’apprendimento dell’italiano all’innamoramento, e anche su Zoom il suo dolore per non potersi riunire al paese e alla sua lingua è palpabile. Quando le si chiede: ‘Perché proprio l’Italia?’, annaspa. Perché ci si innamora di una data persona? ‘È misterioso’, dice. ‘Tutto quello che sai è che c’è in lei o in lui qualcosa che ti fa sentire sicuro, e amato, e vivo’». Se i lettori anglofoni la prenderanno come una scelta letteraria o come un tradimento, resta da vedere.

Ancora a proposito di traduzioni dall’italiano in inglese, Dedalus ha appena mandato in libreria una riedizione dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore di Luigi Pirandello. A cosa si deve il singolare repêchage? Forse al tema del romanzo, il rapporto tra uomo e macchina, forse ai costi ridotti di un volume del genere: scaduti i diritti editoriali di Pirandello, e pure quelli della storica traduzione, firmata da C.K. Scott Moncrieff, meglio noto per essere stato il primo a portare in inglese la Recherche di Proust.
In ogni caso, questo classico minore è stato subito recensito da M. A Orthofer nella sua the complete review e il parere è positivo: certo, la storia è «un po’ strana, a volte tortuosa nelle riflessioni e nell’azione», ma restano efficaci «i colpi che sferra ai disumanizzanti progressi industriali e alla perdita dell’elemento umano. Inoltre, il finale è fantastico. Insomma, vale ancora la pena leggerlo».
Ovunque sia, Pirandello può dormire sonni tranquilli.