Cosa è un museo? Nel 2007 l’Icom (Consiglio Internazionale dei Musei) – l’organizzazione, legata all’Unesco che promuove l’attività museale a livello globale – ha adottato la seguente definizione: «Il museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società, e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali e immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto». Nell’agosto del 2017, Jette Sandahl, direttrice del Museo di Copenaghen, ha proposto di rivedere tale definizione per adeguarla al «linguaggio del XXI secolo» ed è stata nominata chair di un apposito comitato, il Mdpp (Standing Commitee for Museum definition prospects and potentials). Nell’intento di Sandahl le istituzioni museali dovrebbero aprirsi alle crescenti “richieste di democrazia culturale”, facendo del patrimonio materiale e immateriale accumulato una occasione di critica – e autocritica – delle politiche culturali dominanti. In tal senso, secondo Sandahl, «la definizione di museo deve essere storicizzata, contestualizzata, denaturalizzata e decolonizzata».

A LUGLIO di quest’anno il board dell’Icom ha approvato una nuova definizione: «I musei sono spazi democratizzanti, inclusivi e polifonici per un dialogo critico sul passato e sul futuro. Riconoscendo e affrontando i conflitti e le sfide del presente, conservano oggetti per conto della società, salvaguardano diverse memorie per future generazioni, e garantiscono eguali diritti e eguale accesso alle tradizioni per tutti i popoli. I musei sono organizzazioni non profit, lavorano in partnership attiva con le diverse comunità per raccogliere, preservare, ricercare, interpretare e mostrare, aumentando la comprensione del mondo e con lo scopo di contribuire alla giustizia sociale e alla dignità umana, l’eguaglianza globale e il bene del pianeta».

Ma su questo testo si è scatenata una violentissima polemica: 25 comitati nazionali su 115 hanno chiesto di mettere ai voti la proposta di Sandahl nel corso della riunione plenaria che si terrà il 7 settembre a Kyoto. Inaccettabile, secondo i critici, è l’idea di museo come spazio «inclusivo, partecipativo, polifonico», mentre ideologici sarebbero i richiami alla «dignità umana, alla giustizia sociale, all’uguaglianza e al bene del pianeta» come anche l’obiettivo di «un dialogo critico sul passato e sul futuro».

Secondo la francese Juliette Raoul-Duval, la nuova proposta sarebbe più vicina a un «manifesto» che alla compunta fraseologia necessaria alle istituzioni internazionali. Secondo la delegazione francese, seguita da quella italiana, spagnola, canadese, tedesca e russa, la nuova definizione è «ideologica» e ignora «le missioni essenziali che caratterizzano da sempre il lavoro dei musei». Nulla in comune, insomma, tra il Louvre di Parigi e il laboratorio polifonico e democratico immaginato da Sandahl.

ESSENZIALI, per la fronda che ha sollevato la polemica, sono politiche patrimoniali incentrate sull’accumulazione e lo scambio di opere trattate come sublimazioni della merce, finalizzate alla buona educazione dei cittadini. Si incontrano qui il peggio del marketing neoliberale e del conservatorismo culturale: musei come spazi di identità nazionale in frantumi, da vendere ad un tanto al chilo sul mercato dell’intrattenimento o da usare come strumenti per l’anestetica del pubblico pagante. Roba da fare impallidire Quatremère de Quincy il quale, nell’inventare l’idea moderna di patrimonio, aveva avuto almeno il buon gusto di denunciare i saccheggi coloniali che stavano alla base dei musei europei, aprendo uno squarcio sul sangue e i conflitti che macchiano il mondo delle belle arti.
Lex mercatoria e orgoglio identitario, sembrano qui raddoppiare sul piano delle politiche culturali la convergenza tra sovranisti e neoliberisti che avvelena il mondo. D’altra parte, non è un caso se a smuovere le acque paludose della museologia internazionale sia stata una figura come Jette Sandahl. Direttrice e fondatrice di due istituzioni pionieristiche come il Museo delle Donne, in Danimarca e il Museo delle Culture del Mondo, in Svezia, Sandahl si è sempre battuta per pensare i musei come delle piattaforme d’emancipazione e di giustizia sociale, ribadendo così la possibilità di una politica culturale all’insegna dell’autonomia e della critica. Dovremmo esser grati a questa donna coraggiosa che ci permette di immaginare il museo come spazio comune, in cui ciò che era oggetto di culto, perde ogni aura e viene messo a disposizione del dibattito libero tra uguali. Uno spazio per la critica collettiva, dunque, che riorganizzi la nostra percezione e ci aiuti a immaginare nuovi mondi possibili.