Il primo settembre 2020, Vanity Fair ha pubblicato un articolo di Jesmyn Ward, «On Witness and Respair: A Personal Tragedy Followed by Pandemic» (Sulla testimonianza e sul ritorno della speranza: una tragedia personale seguita da una pandemia), un pezzo pieno di rabbia e disperazione, solo parzialmente leniti dalla speranza menzionata nel titolo, in cui la scrittrice racconta la morte del marito a seguito di complicazioni polmonari, e il periodo che la seguì, esacerbato dall’avvento della pandemia e delle rivolte scoppiate in varie città degli Stati Uniti in reazione all’omicidio di George Floyd a opera della polizia di Minneapolis. «Non riesco a respirare», sono state le parole dell’uomo prima di essere trasportato all’ospedale, le stesse pronunciate da Eric Garner nel 2014 prima di morire strozzato da un agente di polizia, e ancora le stesse che disse George Floyd mentre moriva schiacciato sul marciapiede dal ginocchio del poliziotto Derek Chauvin.

Dalla loro barca alla mia
«Il minimo che io possa fare è essere testimone» – scrive Ward – «persino nel pieno di una pandemia, persino travolta dal dolore, avvertivo imperioso il dovere di dare voce ai morti che cantano per me, dalla loro barca alla mia, sul mare del tempo». Da sempre, del resto, la sua scrittura è concentrata sull’esperienza afroamericana, ora rappresentata con gli strumenti del realismo sociale, come in La linea del sangue, ora tinta di elementi sovrannaturali, come in Canta, spirito, canta, dove, fedele alla volontà di farsi medium, l’autrice dà voce al fantasma di un adolescente afroamericano vittima delle condizioni disumane del carcere di Parchman, Mississippi; una prigione in cui – come suggerisce l’iperbole significativa dello storico David M. Oshinsky nel suo studio dedicato all’istituzione – i detenuti erano costretti a subire un trattamento «peggiore della schiavitù».

L’articolo di Vanity Fair è ora ripubblicato in appendice a Sotto la falce (traduzione di Gaja Cenciarelli, NNE, pp. 270, € 19,00), libro di memorie originariamente apparso nel 2013 e dedicato alle vite di cinque giovani afroamericani che la scrittrice aveva conosciuto di persona, morti prematuramente a seguito di tossicodipendenza, criminalità, e, soprattutto, per il razzismo sistemico che da sempre affligge gli Stati Uniti, con particolare violenza al Sud, regione in cui la scrittrice è cresciuta e risiede tutt’ora. Tra queste vittime, il fratello di Ward, Joshua, ucciso da un automobilista ubriaco a soli diciannove anni.

Quella di Jesmyn Ward è dunque una vita segnata da lutti, che non sono, tuttavia, il frutto di una particolare sfortuna: gli afroamericani sono infatti condannati a vite più brevi dei bianchi non solo a causa delle violenze che subiscono dalla polizia, ma anche per quella forma di razzismo strutturale che prevede una maggiore incidenza della povertà o la difficoltà a ottenere cure mediche adeguate. «La vita dei neri è una vita di lutto», scrive Claudia Rankine nella raccolta The Fire this Time, curata da Ward nel 2016.

Scritto in seguito alla nascita del movimento Black Lives Matter, il libro riprende il titolo di un famoso saggio di James Baldwin, La prossima volta il fuoco (1963), tratto da uno spiritual dedicato al diluvio universale. Al termine, Dio – ammonendo Noè – tuona «Basta con l’acqua, la prossima volta il fuoco». Ward sottolinea la necessità di una militanza attiva e concreta modificando l’avvertimento di Baldwin in una constatazione: siamo qui, siamo fuoco.

Un’altra forma di epidemia
Sotto la falce precede The Fire This Time, ma mostra lo stesso sguardo, lirico e impietoso, nel descrivere le vite precocemente finite dei cinque protagonisti, intrecciate ad alcuni passi autobiografici, che disegnano un quadro comprensivo della fragilità imposta alla vita degli afroamericani. Se è vero che la comunità afroamericana ha sofferto in misura maggiore degli effetti del virus, Ward mette in chiaro come i neri americani fossero già afflitti da quella che definisce una «epidemia», ovvero «la piaga del razzismo, della diseguaglianza economica e della mancata assunzione di responsabilità pubbliche e private».

La scrittura si fa strumento di analisi, tanto sociale quanto del proprio animo, e al tempo stesso è una forma di resistenza finalizzata a mantenere vive le storie di tutti coloro che vengono gettati nell’oblio della morte da un sistema manipolato in partenza per accanirsi sui più deboli. Parlando ai fantasmi e lasciando che i fantasmi parlino attraverso di lei, Jesmyn Ward inscrive nuovamente nella memoria pubblica le esistenze nere stritolate dalla macchina statale americana, e così si propone come testimone di fatti e contesti troppo spesso descritti con i toni della fatalità