Da oltre vent’anni Andrea Cavalletti restituisce all’attualità e alla discussione le opere di Furio Jesi. Le nuove edizioni a sua cura accompagnano il testo con introduzioni e note, e lo integrano con appendici in cui scritti e lettere dell’autore offrono un prezioso contesto. I singoli «libri» jesiani degli anni sessanta e settanta, come pure i carteggi e gli inediti che Cavalletti ha saputo trarre dalle carte del lascito, ricompongono via via un corpus saggistico che si muove fra etnologia e storia delle religioni, scienza del mito ed ermeneutica letteraria, filosofia e politica. Si arriva ora alla riedizione, con un’appendice di testi inediti, di Germania segreta Miti nella cultura tedesca del ’900 (nottetempo, pp. 378, euro 18,00), la prima opera maggiore che un giovane egittologo e studioso delle religioni, dal talento precocissimo e versatile, concepì e scrisse nel 1965, e pubblicò nel ’67.
Jesi si mette all’opera nel momento in cui i suoi interessi di mitologo si incrociano con un imperativo etico e conoscitivo di grande forza: affrontare – al termine dell’era Adenauer, vent’anni dopo l’inizio, nella Repubblica Federale, di una rielaborazione del passato dagli esiti assai dubbi – la questione posta fra Otto e Novecento dalla «realtà storica del germanesimo»: come sia spiegabile che un’unica tradizione culturale abbia generato un umanesimo tanto alto e, insieme, un pensiero e un’arte che – volti al culto di una superiorità originaria fondato su un’idea monumentale e funeraria del passato – hanno concorso, in molte sfumature e approssimazioni, prima all’esaltazione del «Kulturkrieg» del 1914, poi all’affermarsi del nazionalsocialismo. Studiare le «sopravvivenze di talune immagini mitiche nella cultura tedesca del XIX e del XX secolo» diventa per Jesi la via verso una possibile risposta.
All’epoca, però, la concezione jesiana di mito è tutt’altro che aproblematica. È proprio il piano di Germania segreta (un titolo che cita Stefan George e Norbert von Hellingrath) a mostrare all’autore un angolo cieco nel suo campo visivo, un’ambivalenza teorica di fondo che rischia di compromettere il suo lavoro analitico. A portarlo sulla strada che subito riconoscerà come giusta è Karoly Kerényi, il maestro a cui Jesi si è rivolto nel 1964 e con cui ora, nel 1965, intrattiene un carteggio esile ma regolare (Demone e mito, a cura di Andrea Cavalletti, Macerata 1999). Quando Kerényi riceve il primo capitolo di Germania segreta, un abbozzo, una «dichiarazione programmatica», risponde con un monito: dapprima inviando un suo recente saggio su Nietzsche accompagnato da una dedica assai eloquente («A Furio Jesi per distoglierlo dal progetto ciclopico non realizzabile con giustizia»), poi, in un successivo incontro a Torino, in maniera diretta. Ora Jesi comprende fino in fondo cosa sia, nell’accezione kerényiana, il «mito genuino», ciò che – all’opposto del «mito tecnicizzato» – è per l’uomo la premessa unica di un rapporto salvifico con le forze della natura e con il proprio inconscio. Kerényi, che proprio alla distinzione fra mito genuino e mito tecnicizzato aveva dedicato nel 1964, a Roma, un’importante conferenza, ricorda a Jesi l’assenza, nella mitologia greca, di demoni che incarnino le potenze oscure e distruttive, e la presenza di soli dèi, espressione di forze suscettibili di diventare supere o infere. È l’uomo che opera una separazione illecita e ipostatizza nel demone ciò da cui si sente oscuramente dominato e attratto: «Là dove nel mito il divino appare congiunto col ‘demonico’, il ‘demonico’ è una partecipazione umana al mito» (lettera di Kerényi del 25 maggio 1965).
Quando Germania segreta viene concepito la tentazione di Jesi, ancora impigliato nell’opacità del suo concetto di mito (e lettore ancora ingenuo di Thomas Mann), è la devozione alle forze inconoscibili del profondo, individuale e collettivo (risposta di Jesi del 30 maggio 1965). L’incontro con Kerényi è il farmaco che Jesi aveva intuito nell’opera del maestro e che aveva cercato scrivendogli. Germania segreta, fondamento dei libri jesiani a venire, è la prima testimonianza della «guarigione» e porta inscritto il delicato e radicale passaggio. La «dichiarazione programmatica» sparisce dalle carte del libro, che trova la sua strada – scrive Jesi nella stessa lettera – nell’istante in cui il demone cessa di apparirgli «come parte integrante del dio» e il mito genuino diventa per lui il «flusso» a cui ha accesso ogni creatività autenticamente umanistica. La rapidità con cui viene elaborato questo trauma conoscitivo e la duttilità con cui la nuova visione saprà reggere, in Germania segreta, il percorso di sei lunghi capitoli attraverso la letteratura, la musica, la filosofia tedesche della «Klassische Moderne» paiono dimostrare che Jesi era maturo per quel pensiero che, di lì a poco, si sarebbe consolidato nell’epistemologia della «macchina mitologica».
Non il mito, dunque, è «colpevole» di generare atrocità e barbarie, ma l’uomo che lo altera, lo deforma e, piegandolo a uno scopo, annulla le sue costitutive facoltà guaritrici. A indurre questa «reversione» è un fatale fraintendimento dell’atemporalità del mito e il suo inserimento nello scorrere della storia: accade allora che un individuo, un popolo, una cultura – i tedeschi, in questo caso – si attribuiscano la prossimità alle origini, un’«infanzia divina» che li predestinerebbe al dominio, all’esercizio «naturale» del potere. L’abuso che il mito subisce è conseguenza di un rapporto malato con il passato che, distorto, viene elevato a misura del presente e del futuro.
Qui l’argomentazione di Jesi, con instancabili riprese in tutti i capitoli di Germania segreta, ha il suo vero nucleo: fra Otto e Novecento, nella crisi della cultura borghese europea, molti intellettuali e artisti tedeschi interpretarono la decadenza della loro classe – l’esaurirsi delle forze dell’agire «calvinista» che ne avevano determinato l’ascesa e la grandezza – come «malattia dello spirito», come passaggio a una «nobile» inazione generatrice di sensibilità artistica e di aristocrazia del pensiero. Contemplazione e passività, scrive Jesi, suscettibili di prestarsi ben presto alle volontà antiumanistiche di organizzare un nuovo agire: quello discendente dal falso mito della propria superiorità storica e culturale.
I due fuochi di Germania segreta sono l’opera di Thomas Mann e quella di Rilke: ma nessuno dei grandi tedeschi che segnarono la cultura europea moderna resta escluso dal fluire della prosa jesiana che, con minimi segni di scansione interna, avanza implacabile nel succedersi di analogie, paragoni e contrapposizioni fra autore e autore, opera e opera, tema e tema. La linea di discrimine corre fra chi – come Mann e Rilke appunto – conobbe l’amicizia con la morte e affermò, rappresentandola, la pulsione distruttiva che domina l’esperienza esistenziale, ma seppe restare entro la misura dell’umano e, nel caso di Mann, opporre un fermo rifiuto alla pseudo-mitologia nazionalsocialista, e chi invece – come Benn e Heidegger – tradì l’imperativo umanistico e scorse salvezza e rinascita nella più grave deformazione del mito che la storia moderna abbia conosciuto.
Si sentono, i cinquant’anni che separano Germania segreta dallo stato attuale della riflessione sul tema, mai esaurito e forse inesauribile, del legame fra umanesimo e pensiero della supremazia e della distruzione. Tuttavia, Germania segreta sa sottrarsi a suo modo al confronto con il nostro presente. Le sue principali intuizioni restano sorprendenti per vigorosa, intatta capacità di cogliere il cuore del problema.