A pochi mesi di distanza dall’ultimo lavoro di Geoff Dyer, Sabbie bianche, il Saggiatore ripubblica il suo primo romanzo, Il colore della memoria (traduzione di Giovanna Granato, pp. 268, euro 21,00): separati quasi da una trentina d’anni, i due volumi sembrano, a tutta prima, offrire un’immagine dell’autore molto mutata nel tempo.

Mentre il romanzo esibisce un lirismo giovanile che riesce a trasformare l’inospitale Brixton dell’era Thatcher in una sorta di calviniana città invisibile, nei saggi di Sabbie bianche, Dyer – ormai alle soglie della sessantina – appare come un giramondo inquieto e un po’ snob; ma a un confronto più attento, i due libri rivelano coerenze interne che percorrono sia la narrativa degli esordi sia la saggistica idiosincratica che ha reso famoso lo scrittore inglese, esibendo una sorta di struttura fotografica e l’apertura incessante del dialogo con chi legge. «Voglio che ciò che scrivo non si allontani più di qualche centimetro dalla vita; ma l’arte sta tutta proprio in quel minuscolo spazio», afferma nella nota introduttiva alla nuova edizione del Colore della memoria.

E proprio in quel centimetro Dyer consente di inseririsi per seguire le sue peregrinazioni tra musica, fotografia, arte, e le storie tragiche «ma bellissime» dei suoi jazzisti.

I suoi libri rifiutano l’iscrizione a qualsiasi genere letterario: è un abbattimento delle classificazioni suggerite dalla critica, quello che lei persegue, o le viene spontaneo scrivere così?

Ormai sono in molti a scrivere in modo analogo, tanto che il «non categorizzabile» sta diventando esso stesso un nuovo genere. E anche il mio successo risente dell’ondata degli autori che praticano questo tipo di scrittura, tanto che molti critici mi vedono come parte di un movimento e, per quanto sia bizzarro, mi ritrovo inserito non in uno, ma in parecchi sottogeneri, a volte anche tra loro assai diversi: autofiction, critica autobiografica e saggistica narrativa. Nulla di nuovo, del resto: l’autofiction si può far risalire a Henry Miller, o anche prima, a George Orwell, che ha scritto pagine esemplari del genere. Tuttavia, nei miei libri, c’è sempre qualche indizio che ricorda al lettore di trovarsi di fronte a un’opera di finzione, anche solo il cambio di nome che impongo al personaggio di mia moglie Jessica in Sabbie bianche o al protagonista del mio romanzo Amore a Venezia, morte a Varanasi, che non si chiama precisamente come me.

Il taglio «fotografico» della sua scrittura non dipende dall’attenzione ai dettagli o dal realismo, ma soprattutto dalla sua capacità di isolare dal continuum spazio-temporale gli attimi più significanti. Del resto, lei ha molto scritto di fotografia, non solo nei saggi (per esempio, c’è in «Sabbie bianche» una bellissima analisi di una immagine di Ghirri), ma anche in opere di narrativa: dalla struttura del «Colore della memoria», che è quella di un album di istantanee, a «Natura morta con custodia di sax», storie di jazzisti ispirate alle loro fotografie.

Come diceva John Berger, cui ho dedicato il mio primo saggio e al quale sono molto grato, sia per la mia scrittura che per motivi esistenziali, la fotografia è un modo di rendere viva l’immagine, di concretizzare il dettaglio: aiuta lo scrittore a vedere quel che succede, e anche quando sembra limitarsi a documentare il mondo reale, lascia ampio spazio alla soggettività: se chiedi a sei persone di fotografare la stessa cosa, produrranno sei immagini completamente diverse. Quando ho scritto Il colore della memoria, non sapevo pressoché nulla di storia della fotografia, ma da allora non ho mai smesso di occuparmene, la trovo infinitamente affascinante. Di tutti i fotografi che ho scoperto negli ultimi anni, Ghirri è per me senza dubbio il più fantastico: le sue foto sono documenti di un mondo esteriore, che riesce a trasformare, completamente, nel suo proprio mondo bizzarro. Dove sono state scattate queste foto, mi viene sempre da chiedermi? Forse in un luogo chiamato Ghirriland.

Già, dove si incontrano quei cancelli aperti sul nulla, che la nebbia non riesce a inghiottire…

Magnifico, proprio quelli! Un fotografo australiano, Bill Henson, ha detto, in riferimento al proprio universo fotografico: «C’è un altro mondo, ma è in questo mondo». È una citazione che si addice perfettamente a Ghirri. E mi piace la misura delle sue foto, la sua modestia: oggi ci sono fotografi che espongono immagini enormi, la cui estensione a volte è solo un pretesto per confondere chi guarda, perché non c’è niente da vedere.

L’altro elemento che accomuna tutti i suoi lavori è la musica, soprattutto il jazz. Da «Il colore della memoria» fino a «Sabbie bianche», passando, per «Natura morta con custodia di sax», sono molte le figure di jazzisti che tornano a popolare le sue pagine.

Oggi seguo soprattutto altre forme di musica che si rifanno al jazz in modo sperimentale: così come mi piacciono i libri che non rientrano in nessuna particolare categoria, mi piace la musica non etichettabile, e al momento ce n’è tanta in giro. Però quando sono scomparsi Charlie Haden, Ornette Coleman, Don Cherry, non ho potuto fare a meno di scrivere su di loro, perché la loro musica ha significato tanto per me. Di Don Cherry, che amo particolarmente, mi piace l’atteggiamento nomadico, il suo mescolare generi musicali: in tutti i posti dove ho vissuto, ho appeso una sua foto sopra la mia scrivania, e adesso ho un suo bellissimo poster incorniciato nel mio appartamento a Los Angeles.

Spesso nei suoi libri lei si è ritratto come un individuo piuttosto snob, un incontentabile. È solo una questione di ironia?

Amo scherzare, trasformare in battute argomenti seri e viceveresa. Mi piace lo humour britannico, ma la satira non mi interessa affatto. Quel che mi importa è trasmettere il senso di meraviglia che un luogo o una situazione possono offrire. Così in Sabbie bianche, per ogni esperienza di delusione, raccontata in maniera umoristica, ce n’è almeno un’altra positiva, in cui mi sono sentito tutt’uno con l’ambiente che mi circondava. Comunque, è un punto d’onore – per me – che in tutti i miei libri io sia quello che fa la figura peggiore.