Quando si dispose a dare una struttura compiuta al libro che le ha guadagnato la notorietà, Il tempo è un bastardo, Jennifer Egan – allora pressoché sconosciuta e oggi una delle autrici più acclamate del mondo editoriale – nominò le due parti in cui il romanzo era diviso A e B, con ciò siglando la affinità che intendeva stabilire con la forma del «Concept album» discografico, che pur ruotando intorno a uno stesso tema si compone di brani indipendenti uno dall’altro. Evidentemente troppo affezionata ai personaggi che vi aveva messo in scena per abbandonarli definitivamente, Jennifer Egan li ha ripresi nel suo ultimo romanzo, La casa di marzapane (in uscita il 17 maggio da Mondadori, traduzione di Gianni Pannofino, pp. 384 € 22,00) proiettandoli avanti nel tempo, mentre l’industria discografica ha subito un irreversibile declino e quella dell’innovazione tecnologica una accelerazione fin troppo brusca, e per certi versi anch’essa drammatica.

Il romanzo si apre e si chiude con due capitoli intitolati «Costruzione» – il primo inaugurato da un racconto che ha al centro la figura di Bix Bouton, venerato maestro della tecnologia, e fondatore di Mandala, il gigantesco business per la commercializzazione di elaborati dispositivi informatici – e l’ultimo datato venticinque anni dopo, dov’è di scena Gregory, il figlio di Bix, ostile alla principale invenzione del padre, che ha ormai conquistato folle di adepti, insieme a qualche immancabile e provvidenziale oppositore.

Genesi di una scoperta
In apertura del romanzo Bix Bouton ci viene presentato come un uomo in crisi di idee, che smania per trovare nuove invenzioni, ma la cui mente si scontra ostinatamente con una nebbia cognitiva che gli impedisce di portare a compimento nuovi progetti. Un giorno, durante una passeggiata nell’East River Park, si ritrova nel punto in cui – decenni prima, e in uno degli episodi meglio raccontati di Il tempo è un bastardo – aveva incrociato e brevemente salutato due amici, Rob e Drew, pochi minuti prima che Rob annegasse nel fiume. Bix torna a quella mattina, ma qualcosa nella memoria gli fa difetto: «se non era capace di consultare o di recuperare o di vedere il suo passato – riflette – allora quel passato non era veramente suo: era perduto».

Da qui, da questo disagio provocato dalla percezione dei limiti della propria memoria, nascerà la sua invenzione più strabiliante, «Riprenditi l’inconscio», triviale etichetta per un sofisticato dispositivo che permette di esternalizzare la propria coscienza in un cubo commercializzato da Mandala: archiviato e ormai incorruttibile, ogni singolo atto, pensiero, percezione, e conseguente ricordo, ma anche tutti i vissuti rimossi di cui non si ha più cognizione, saranno recuperabili. E al piccolo prezzo di rendere la propria coscienza consultabile in forma anonima, la si potrà proiettare in una area collettiva e dunque condivisibile, con il risultato di avere in cambio accesso alla coscienza altrui.

Più o meno tutti, a partire dai 21 anni, l’età minima richiesta da Mandala, accedono a questa prassi che ha sostituito la condivisione della musica nei decenni precedenti e reso obsolete le mappature del genoma. I vantaggi sono innegabili: i casi di Alzheimer diventano ormai rimediabili tramite la reinfusione nell’individuo malato della sua coscienza integra, salvata a tempo debito in un Cubo Mandala; persone date per scomparse vengono ritrovate; le lingue candidate all’estinzione saranno portate a nuova vita. Dai vertici del business alla base costituita da dissidenti sparsi per il mondo, una rete clandestina di «elusori» si mobilita tuttavia, per distruggere le imprese di Mandala. Diversi intenti li muovono: il leader riconosciuto del movimento di resistenza a questa invasività nella psiche umana è Christopher Salazar, figura enigmatica che vive sulla West Coast, a capo di una organizzazione non profit chiamata Mondrian, che gestisce una rete di giochi di ruolo nei centri antidroga della Bay Area. Contrario all’uso anche solo privato di «Riprenditi l’inconscio», Chris è un letterato che ha scoperto come tradurre in forma algebrica elementi narrativi. In contrasto con i suoi stessi principi, userà le sue competenze per macchiarsi di un’altra trovata tecnologica con non poche conseguenze: sotto la sua direzione, una rete di proxy, ovvero di «identità online vacanti» vengono gestite da terzi per nascondere «il fatto che i loro intestatari umani si sono imboscati».

Fra le due società, Mandala e Mondrian, si scatena una rivalità pubblicizzata come lotta per la sopravvivenza; ma, non a caso, dopo la morte di Bix, si scoprirà che l’inventore di «Riprenditi l’inconscio» aveva destinato una cospicua fetta del suo lascito alla società di Chris, che da sempre lo combatte: è l’estrema ricerca di redenzione di un uomo in fin di vita, consapevole di avere inventato un marchingegno capace di stravolgere la condizione umana.

In sintonia con la grande rete informatica da cui nulla ormai può prescindere, tutto quanto avviene in questo libro è governato da un intrico di connessioni e di reciproche dipendenze. E tutti i personaggi hanno tra loro una qualche parentela o una stretta contiguità, che li riporta a quanto avevano vissuto sulle pagine del Tempo è un bastardo, dove non a caso Jennifer Egan anticipava, in passaggi declinati al futuro anteriore, quanto sarebbe loro successo negli anni a venire. Quel futuro è ora il tempo presente in cui La casa di marzapane si svolge, dove chi avevamo incontrato da ragazzo è ormai un adulto maturo e chi era già avanti nell’età ha varcato la soglia delle vecchaia. Bennie Salazar, padre del ribelle Chris, che nel romanzo precedente tentava di riportare in vita il suo desiderio sessuale sciogliendo piccole scaglie d’oro nel caffè, ora torna al mondo del rock in cui aveva fatto fortuna attirando a sé i mediocri musicisti di un tempo, per portare se stesso – e loro con lui – a una rinverdita celebrità; ma contrariamente agli altri, Bennie esibisce – in un capitolo che consiste di soli scambi di mail, qualche barlume di consapevolezza: «Il solo modo di avere rilevanza, alla nostra età – scrive alla ex moglie Stephanie – è la nostalgia autoironica ma non è questo – voglio dirlo chiaramente – il fine cui puntiamo. La nostalgia autoironica è soltanto il portale, la casa di marzapane, se volete con cui speriamo di attirare e stregare una nuova generazione».

Da qui il titolo
Spetta a Bennie, dunque, far precipitare i fatti verso una sorta di redde rationem, ed è a lui che Jennifer Egan mette in bocca le parole che sceglierà per il titolo del romanzo, dove ripropone ancora una volta la radicalità dell’impatto che il passaggio degli anni infligge alle diverse vite dei personaggi. Tra quelli che tornano portandosi dietro dal libro precedente più promesse narrative, Sasha è la ex dipendente della casa discografica di Bennie, che dopo anni di collaborazione era stata licenziata a causa della sua coazione a rubare: qui, ha domato la sua forma di cleptomania e dopo una vita fatta di ricorsi alla droga, fughe e corteggiamenti della marginalità, è venuta a patti con «il tempo bastardo». Ora ha tre figli da Drew, che trentasei anni dopo l’annegamento dell’amico Rob nel fiume è ancora ossessionato dal senso di colpa. Anche lui vorrebbe esternalizzare la sua coscienza in un Cubo Mandala e riprendersela ripulita da quella macchia; ma sa bene che «Riprenditi l’inconscio» funziona solo sui traumi recenti, dunque rinuncia.

L’inventario dei personaggi e delle comparse conta non poche altre figure intriganti, alcune delle quali compaiono in situazioni che, a distanza di trent’anni o di pochi istanti dal romanzo precedente, si ripresentano dalla prospettiva di diversi osservatori della stessa scena. E fin qui, c’è da credere che Jennifer Egan si sia divertita e, noi con lei; ma l’intento principale della scrittrice americana è, innegabilmente, quello di stupire.

Se in Il tempo è bastardo, aveva provveduto a trovare una forma narrativa diversa per ogni capitolo, alternando le voci dei personaggi e arrivando a affidare a una delle figlie di Sasha un racconto impaginato come la riproduzione di slides proiettate in power point, qui ci fornisce un quadro del demi-monde hollywoodiano, e della vacuità delle relazioni finalizzate alla conquista della celebrità, tramite un capitolo fatto di scambi di mail. In un’altra parte del libro, poi, alterna una cospicua sequenza di frasette paranoiche, impaginate una dopo l’altra, e fatte di poche parole in forma di avvertenza, o di pillole di saggezza, o di considerazione inattuali, o di massime sul vivere, la cui funzione non è facilmente individuabile.

Nessuno dei suoi personaggi, qui e altrove (in Manhattan Beach la più «normale» delle sue creature faceva la palombara al tempo della seconda guerra mondiale) sfiora la qualunquità, e questo sforzo di superfetazione inventiva, questa ricerca di strategie narrative pagano un prezzo al godimento della lettura.
Di certo, Jennifer Egan condivide l’aspirazione di uno dei suoi personaggi migliori, Rebecca Amary, che lavora sulla autenticità nell’epoca digitale tentando di cavar fuori dalle parole più abusate un ultimo significato prima che degenerino in vuoti involucri verbali. Ma poi gli esiti del suo desiderio di sbalordire si avvicinano pericolosamente ai rischi corsi da un altro tra i suoi personaggi minori più riusciti, quell’Alfred che allo scopo di ottenere risposte spontanee, «invece delle cagate fasulle che ci rifiliamo a vicenda ogni giorno da mattina a sera» ritiene utile provocare negli altri reazioni di getto, e perciò, in luoghi pubblici e fra astanti esterrefatti, erompe in urla fra lo strazio e il ruggito ottenendo di essere cacciato via, non prima di avere effettivamente prodotto una non verbalizzabile costernazione.