Nessuno suonava la chitarra come Jeff Beck. È un dato di fatto su cui si poteva concordare già prima di martedì, giorno in cui una meningite batterica se l’è portato via. Non è un giudizio di valore, né una sterile classifica postuma. Semplicemente, al netto del ciclone Hendrix, è stato il chitarrista più singolare della sua generazione.
Ed era una generazione piuttosto ricca, quella. Geoffrey Arnold Beck, per tutti Jeff, era nato il 29 giugno del 1944, sei mesi dopo Jimmy Page e nove prima di Eric Clapton. Con ordine inverso i tre si sarebbero succeduti, giovanissimi, tra le fila degli Yardbirds: si stenta ancora a credere che un’unica band abbia accolto tre dei più acclamati guitar hero di tutti i tempi. Povero Keith Relf, mai frontman fu così in ombra.

ERANO I GIORNI della Swinging London, deflagrazione di suoni e di immagini le cui schegge più preziose restano impresse su nastro, vinile e celluloide. L’album della memoria dischiuso post mortem riporta sugli schermi la scena di Blow-Up che vede Beck, Page e compagni esibirsi in concerto. La cinepresa è tutta per lui, a immortalare il rituale chitarricidio di fine concerto.
Genio e sregolatezza, si potrebbe dire con superficialità, accostando le sue scorribande su strada e nei club a quelle di George Best, altra icona albionica da rotocalco. Ma a differenza dell’attaccante nordirlandese, e di molti colleghi rockstar, in Jeff il genio avrebbe avuto facilmente la meglio sulla sregolatezza. Al di là dell’immagine, un carattere schivo; oltre le Ford e le Corvette parcheggiate davanti alla sua casa di campagna, una totale dedizione alla musica. Armeggiando in studio come in officina, è riuscito a estrarre dalle corde «i suoni più assurdi possibili», e dare un senso tangibile all’usurata metafora del far cantare la chitarra.

ESEMPI classici, le sue versioni di She’s A Woman, Goodbye Pork-Pie Hat o ‘Cause We’ve Ended As Lovers. Ma potrebbe essere altrettanto godibile rispolverare l’eponimo album degli Yardbirds passato alla storia come Robert The Engineer (1966) per rendersi conto di quanto fosse autocosciente la sua ricerca. I primi segni di uno stile unico già si colgono in quei legati che guidano il fraseggio della mano sinistra, e soprattutto nell’impostazione della destra. Pollice e indice, battere e levare, a fare le veci del plettro. Le rimanenti dita a governare la leva del vibrato e il potenziometro del volume, tenuto a zero nel momento dell’attacco e poi ruotato per far cantare le note — ancora quella metafora — come fossero emesse da un violino o da un’armonica a bocca.
Il tutto a servizio di un’inventiva melodica rarissima. Sì, perché se Slowhand non ha rivali nella comfort zone della pentatonica, e il giovane Jimmy Page tiranneggia i palchi con l’esplosione sonora, in pochi sanno costruire fraseggi di uguale ricchezza cromatica, andando a pescare quelle note così inattese, da scovare nella mente ancor prima che sul manico. Sculture d’aria, le definiva Frank Zappa.

Jeff Beck
La Fender è per me uno strumento di ispirazione e tortura allo stesso tempo, mi sfida ogni volta a trovare qualcosa di nuovo dentro di leiLa stessa ricerca perenne avrebbe lasciato frutti lungo il percorso diversamente solista di Beck, dagli album Truth (1968) e Beck-Ola (1969) — con Rod Stewart alla voce e Ron Wood al basso — al trio con Bogert e Appice, tra i primi supergruppi di un rock che guarda già alla fusion, come dimostra quell’uno-due di capolavori in una manciata di mesi, Blow By Blow (1975) e Wired (1976), premiato con otto Grammy. Gemme apicali di un artista disposto a mettersi in gioco anche nella fase finale della sua carriera, traendo il meglio persino dalla collaborazione con Johnny Depp.
Assieme all’album dei ricordi, ora si aprirà una successione difficile da raccogliere per i giovani musicisti, e una linea genealogica tutta da tracciare. In Jeff Beck, la lezione di Roy Buchanan, Les Paul e Buddy Guy si era sposata con il background canoro della sua infanzia e con il gusto per i fiati di Lester Young e il lirismo di Charles Mingus.
Della sua ricerca avrebbero a loro volta fatto tesoro David Gilmour e Brian May, Steve Vai e John Frusciante, a lui sempre grati.
Ma la riconoscenza più significativa, oggi, arriva proprio dai suoi vecchi coetanei. «Always and ever», scrive Clapton, sintetico. Jimmy Page trova parole più eloquenti: «Jeff sapeva canalizzare la musica dalla dimensione eterea».