Un ciuffo arruffato di capelli sulla fronte, il sorriso obliquo da stregatto a colloquio con Alice, al di là dello specchio, nel «Paese delle Meraviglie Rock». Con una chitarra a tracolla portata con la stessa nonchalance studiata con cui la portano, per dire, Keith Richards o Eric Clapton, o Jimmy Page. E oggi, magari, Warren Haynes o Susan Tedeschi. La chitarra come prolungamento di un arto del corpo, perché quella generazione cresciuta a botte furiose di blues e rhythm and blues aveva capito che non è solo uno strumento, la chitarra. È un mondo che parla ad altri mondi, ammicca, suggerisce, accarezza e ruggisce, al caso, e lo fa sul comune denominatore delle cavalcate elettriche che aizzano belle fantasie tra suoni rassicuranti e suoni mai uditi, da visione lisergica. L’uomo col ciuffo sfrontato era Jeff Beck, professione chitarrista, specializzazione: pioniere indiscutibile del rock e delle tecniche chitarristiche più innovative da quando tale musica aveva preso il nome accorciato, sfrondando la parte ’n’roll che ormai era implicata d’ufficio, e ne avrebbe limitato i contorni. Anche se il rock’n’roll c’entra eccome nella formazione di Jeff, come il blues e lo skiffle che avevano pacificamente invaso l’Inghilterra.

I «GALLINACCI»
Jeff Beck se n’è andato a settantotto anni, fiaccato da una terribile meningite batterica. Per farlo ha aspettato che iniziasse un nuovo anno nell’Inghilterra sfinita dalla Brexit e dall’illusione di un distacco eroico dall’Europa che s’è rivelato poco più che miseria isolazionistica e rimpianto, forse, di un passato di fasti coloniali che non tornerà mai più. Contro quella grandeur posticcia e velenosa si ribellò, appunto, la generazione di Jeff Beck, la prima a tirare fuori le unghie e infiammare animi, locali, nuove controculture in cui il rock era collante, additivo energetico, veicolo per far passare idee e sentimenti intristiti nella piccola bigotteria borghese del secondo dopoguerra. Quell’avvento di felicità posticcia basata sul consumo che la stirpe ribelle del rock prese a bersaglio. Finendone vittima, spesso.
Jeff Beck, per gli appassionati di quel momento frenetico e irripetibile, è innanzitutto la stagione ruvida e potente degli Yardbirds, i «gallinacci» come li chiamò una volta un sornione Mike Bongiorno presentandoli in televisione nel 1966. Jeff Beck era nato a Wallington, zona sud di Londra: l’amore per la musica è un dato di fatto fin da bambino: il primo incontro con una chitarra a sei anni, il canto corale in chiesa, poi, finalmente, una sei corde elettrica tra le mani, già con il vezzo (che diventerà poi progressivamente una tecnica: e che tecnica raffinata) di suonarla non con il plettro, dunque con il massiccio «strumming» dei primi gruppi beat, ma con il pollice e l’indice. Dita d’oro: negli anni a venire sarebbero state assicurate per sette milioni di sterline! Poi c’è la scuola d’arte, un denominatore comune a gran parte della prima generazione rock inglese: vedi alla voce David Bowie o Robert Wyatt, per conferme.
La gavetta di Jeff Beck è con gli oscuri Screaming Lord Sutch e poi con i Tridents, sottobosco inquieto del beat inglese, poi arriva la decisiva chiamata dagli Yardbirds. Era un gruppo potente, nato nel 1963 dall’unione di forze tra la Metropolis Blues Band e i Suburban, s’erano subito fatti notare nelle sere incendiarie al Crawdaddy, il locale dove suonavano anche i Rolling Stones degli esordi. Poi avevano avuto la fortuna di accompagnare Sonny Boy Williamson, strepitoso armonicista blues nero in tour in Inghilterra, e i riflettori s’erano cominciati ad accendere sulla band, e nel ’64 era arrivato il primo long playing, dal vivo al Marquee di Londra, Five Live Yardbirds. La svolta era arrivata con For Your Love, virata più «pop», nonostante il suono abrasivo, che comporta però l’abbandono del gruppo, il 13 marzo del 1965, da parte del chitarrista intenzionato invece a posizionarsi sempre più nel campo del blues revival, Eric Clapton, futura superstar. Che cerca rifugio nel confortante abbraccio blues di John Mayall con i suoi vivaci ed eccellenti Bluesbreakers, mentre gli Yardbirds assumono Jeff Beck, giovane di belle speranze, dal tocco imprevedibile e sempre sorprendente, perfino sopra le righe, quando scatta in assolo. Impossibile non notarlo. Durerà appena una ventina di mesi la permanenza di Jeff Beck negli Yardbirds, neppure due anni. Ma sono mesi cruciali che contribuiscono a piantare pali di sostegno essenziali per buona parte di tutta la futura impalcatura del rock a venire.

TALENTO MATURO
Anche perché, a un certo punto, negli Yardbirds Jeff Beck si troverà affiancato, alle sei corde, da un altro talento di quelli speciali, il giovane Jimmy Page, dal fraseggio assai più oscuro e contorto, destinato ai futuri fasti heavy rock dei Led Zeppelin. Buffo anche notare che Jimmy Page, all’inizio, non voleva per nulla entrare negli Yardbirds, e fu proprio lui a proporre il nome di Jeff Beck. Da parte sua Beck ha la prima occasione per mostrare il suo talento già maturo nell’aprile del ’65, quando incide con gli Yardbirds Heart Full of Soul, un brano scritto da quel geniaccio di Graham Gouldman, futuro fondatore degli irriverenti e geniali 10CC.
Va di moda l’Oriente, nella controcultura inglese, qualche bel richiamo alle note in bending e tremolanti del sitar fa la sua figura, sulla scorta di Beatles e Rolling Stones, e allora gli Yardbirds ci provano con un sitar e una tabla, la percussione indiana parzialmente intonabile con le dita. Non funziona. Jeff Beck prende in mano la situazione, e risolve il tutto con un guizzo d’ali: collega la sua chitarra Esquire del 1954 a una fuzz box, la distorsione pilotata del riff produce esattamente l’effetto sitar orientale, nello sbalordimento collettivo del gruppo. In Evil Hearted You Jeff Beck riesce a creare un ponte tra le sonorità da western immaginario di Ennio Morricone e la surf music californiana, ed è di nuovo centro. Il botto chitarristico arriva nel settembre del 1965, quando Beck convince la band a registrare Train Kept a Rolling: con la chitarra riesce a imitare perfettamente il fischio di un treno in partenza, poi è un riff tempestoso che farà da solida base a buona parte delle idee del futuro hard rock.
A proposito di hard rock e ritualità dello stesso: è anche il caso di ricordare che Jeff Beck con gli Yardbirds appare in Blow Up di Michelangelo Antonioni, uno dei capolavori del regista italiano: la distruzione rituale in pubblico della chitarra, in un locale con i pezzi della stessa lanciati sul pubblico allibito e eccitato, assomiglia nel film a una sorta di rito sacrificale. Lo facevano anche gli Who, lo fanno ancora oggi molti tristi epigoni fuori tempo massimo di quella stagione non ripetibile. Un altro colpo gobbo di Jeff Beck con gli Yardbirds arriva con la celeberrima Shapes of Things, un magistero psych rock che riesce a coniugare sonorità orientali ricercate sulle corde elettriche e scie di feedback rumoristico pilotate. È proprio il feedback, effetto di innesco di rumore parassita sulle casse, il protagonista dello strepitoso brano che fa da lato b sul 45 giri che lancia Shapes of Things. Si tratta di Mister, You’re a Better Man than I, e qui il discorso si apre se sia stato Jimi Hendrix a studiarsi a puntino quello sconquasso caotico ricondotto a una sorta di ordine superiore da Jeff Beck, o il contrario. Nella sua modestia di fondo, Jeff Beck riuscì una volta a dichiarare che, dopo aver visto in azione Hendrix, gli era venuta voglia di smettere.

SGUARDO A ORIENTE
Le commistioni tra blues pentatonico e musica che profuma d’Oriente non finiscono qui, per il Jeff Beck degli Yardbirds, e ne proiettano la musica in avanti: un altro brano che lascia stupiti ancora oggi per visionarietà ed efficacia secca del riff è Over under Sideways Down. Beck se ne va dagli Yardbirds alla fine del ’66, a novembre, condannando la band a un mesto ancorché dignitoso declino. Ha in mente ulteriori allargamenti di orizzonti sonori, la palette timbrica della sua chitarra è sempre più ricca, la maestria di quelle due dita che accarezzano o aggrediscono le corde sempre più raffinata. Non se n’è ancora andato dagli Yardbirds che già sperimenta nuovi, inusitati approcci. Il più riuscito e strano, inciso il 16 maggio del ’66 si chiama Beck’s Bolero, e per realizzarlo Jeff Beck chiama a raccolta una formazione micidiale. C’è l’altra cruciale sei corde, quella dell’amico e di lì a poco compagno di gruppo Jimmy Page, c’è John Paul Jones al basso elettrico, che con Page fonderà i Led Zeppelin, c’è il folletto dei tasti Nicky Hopkins, fra i talenti migliori e più dimenticati del classic rock, c’è l’impetuoso, travolgente Keith Moon degli Who alla batteria. In pratica un riassunto operativo di come il tardo beat blues inglese traghettò se stesso verso lidi più duri e oscuri. Beck ora imbraccia una chitarra Les Paul, Jimmy Page una Fender a dodici corde. Nella prima parte Beck accarezza le note del Bolero di Ravel, nella sua implacabile costruzione ritmica ripetuta, poi, dopo aver indossato un bottleneck – un cilindro d’acciaio che si infila solitamente sull’anulare e che si fa scorrere sulle corde della chitarra -, si lancia in un derapante assolo che anticipa l’heavy metal, lascia deflagrare la musica sotto cumuli di effetti di distorsione, e ritorna al Bolero. Una specie di viaggio lisergico senza l’ausilio di LSD: Beck è ormai pieno padrone dei suoi mezzi, è uno dei chitarristi più visionari che il mondo della popular music abbia conosciuto. Da lui già si diparte quella linea di rock psichedelico e heavy, un’affollata platea di chitarristi gli pagherà tributo: da Joe Satriani a Mark Knopfler, da Eddie Van Halen a Steve Howe degli Yes. Nessuno riuscirà ad usare negli stessi termini la sua tecnica inimitabile, trovando dunque altre soluzioni: lui affinerà negli anni quel modus operandi per cui il pollice «strappa» leggermente le corde, l’indice manovra con calibrata sapienza su corde e leva del vibrato, presidiata da medio e anulare, il mignolo è riservato a un controllo magistrale delle dinamiche sulla rotella del volume. Manca ancora qualcosa, per un chitarrista già apparentemente completo nell’inventiva? Sì, e arriverà da lì a poco. Il fraseggio jazz rock, e sarà un’ulteriore tappa necessaria da affrontare in navigazione per Jeff Beck: ovviamente raggiunta, da lì a poco. Grazie anche a un nuovo amico, John McLaughlin, che su quelle sponde viaggia sicuro.

LE PERSONE GIUSTE
Gli Yardbirds alle spalle, quel Bolero appena inciso a indicare un’altra strada possibile, e via a raccogliere idee e cercare di capire dove andare, per Jeff Beck. L’esito, quasi di necessità, è avere una propria band, un gruppo al servizio di nuove avventure e di una maturità strumentale quasi completa. Si guarda un po’ attorno Beck, e subito prende le misure giuste con le persone giuste, per un disco a suo nome, finalmente. Individua un ragazzo sicuro di sé e con la voce alla carta vetrata, arrochita già da qualche sigaretta di troppo, ma assai espressiva, Rod Stewart. Il chitarrista ritmico, a rilevare la parte che aveva avuto Page, dovrebbe essere Ronnie Wood, preciso e affidabile, e destinato a successive fortune stellari, con le «pietre rotolanti». Però manca un bassista di valore, e Wood si assume volentieri quel ruolo. Alla batteria c’è Mickey Waller, a sostituire Ansley Dunbar, primo acquisto, e Waller è uno di grande esperienza nel campo del rock blues: ha suonato con Brian Auger, con gli Steampacket, con John Mayall, s’è già trovato in altre band con Stewart. Nell’agosto del ’68 il nuovo Jeff Beck Group fa uscire per la Epic Truth, ed è un piccolo capo d’opera, col recupero, peraltro, di quel Bolero inciso un paio d’anni prima, e che sembra ancora, due anni dopo, una scheggia di futuro. C’è il blues, c’è il soul, ci sono gli omaggi ai maestri neri del genere, che Beck ha conosciuto di persona, ci sono nervature folk, ci sono le prime escursioni in un jazz rock annusato con circospezione. Ma, su tutto c’è un suono grintoso d’assieme che, com’è stato notato, mette di diritto questo disco tutto sostanza nel canone del rock duro e del rock classico inglese coevo, accanto ai lavori dei Cream, degli Who, dei Led Zeppelin di Jimmy Page che, appunto, praticano la stessa fusione alchemica di elementi. Da Howlin’ Wolf Beck recupera I Ain’t Superstitious, da Willie Dixon You Shook Me, ed è una festa di blues duro e allo spasimo, dai non dimenticati Yardbirds si riprende Shapes of Things, colorando nuovi timbri con la sua Gibson Les Paul. Il Jeff Beck Group sarà una creatura rocciosa, potente ed effimera, come spesso accade nella carriera di Jeff Beck. Segue un solo altro disco, Beck-Ola, nel giugno del ’69. Un gran disco, ancora una volta, sempre più spostato in territori hard rock, ma addolcito a tratti dalla presenza in studio di un vecchio amico, Nicky Hopkins con il suo pianoforte.
Poi arriva la botta di sfortuna: Rod Stewart e Ron Wood decidono di prendere altre strade, e se ne vanno a formare gli scalpitanti Faces, sorta di Rolling Stones in minore che lanceranno definitamente le due carriere separate di Wood e di Stewart, la stabilita esibizione del Jeff Beck Group a Woodstock che avrebbe potuto funzionare da consacrazione viene cancellata, e lo stesso Jeff Beck per un anno è fuori gioco. Lo ha tradito la sua passione per le automobili veloci: si schianta con uno dei suoi gioielli a quattro ruote, si fracassa la testa. Ci vorrà un anno per ritornare in pista, con un nuovo Jeff Beck Group, alla voce l’afroamericano Bobby Tench: Rough and Ready e Jeff Beck Group, rispettivamente del ’71 e del ’72 sono i due nuovi lavori in quintetto, notevoli, ma in un equilibrio strano e instabile tra belle cover (Bob Dylan, Curtis Mayfield, Don Nix), soul, funk e hard rock. In particolare Going Down di Nix, già resa celebre da Freddie King, è un trampolino di lancio per uno dei più spettacolari assolo di Jeff Beck: se non si sapesse chi è, si potrebbe pensare a un giovane Van Halen. L’inquieto Jeff Beck chiude anche l’esperienza di questa potenziale e valida band, per altre avventure. Prova a suonare in quintetto con due vecchi amici reduci da gloriose militanze rock a stelle e strisce (Vanilla Fudge, Cactus), Tim Bogert e Carmine Appice, non funziona. La soluzione è per sottrazione: un trio Beck, Bogert & Appice che molti considerano tutt’ora solo un bieco tentativo commerciale di cavalcare consolidate piste hard rock, ma che al riascolto, oggi, al di là delle pigrizie critiche, mostra una flessuosità e un’inventiva ragguardevoli. Il supertrio lascia un disco in studio, uno dal vivo in Giappone, e siamo nel ’73. Chissà che un giorno qualcuno non si decida a pubblicare ufficialmente anche lo splendido bootleg canto del cigno per Beck, Bogert e Appice, At Last Rainbow, cronaca di una serata infiammata il 26 gennaio del ’74 ben conosciuta dai fan di Beck.

IN PROPRIO
Ora Beck è di nuovo da solo, in pista: gran rifiuto per un’offerta milionaria per entrare nei Rolling Stones, dove comunque sarebbe stato un comprimario, e inizio di un serio interesse per l’universo jazz rock, che lascia un gran segno nei suoi dischi della seconda metà anni Settanta: Blow By Blow, Wired, e un solido Live con il gruppo di Jan Hammer, già tastierista con la band funambolica del suo amico John McLaughlin, la Mahavishnu Orchestra. Poi arriva la maledizione dell’acufene, il ronzio nelle orecchie di chi ha macinato troppi watt che fa diventare pazzi, e le presenze di Jeff Beck si diradano per necessità: qualche disco sfuocato di impronta pop, qualche apparizione di beneficenza, un singolo azzeccato con il vecchio amico Rod Stewart, People Get Ready. L’ultimo progetto, fianco a fianco con Johnny Depp, a rimasticare vecchi classici e qualche canzone, tutt’altro che memorabile, dell’attore stesso con velleità da rocker. D’altra parte, un quieto autunno finale da senatore del rock non può far dimenticare una primavera e un’estate gloriosa, quelle sì fissate per sempre nel tempo.