Al pranzo organizzato da Carson Mc Cullers in casa sua, dove oltre a servirsi di ostriche e champagne Karen Blixen poté conoscere come desiderava Marilyn Monroe, lei non era stata invitata. Ebbe tuttavia l’occasione di intervistare la scrittrice danese un mese dopo al Cosmopolitan Club. Pare che il marzo di quel 1959 fosse singolarmente gelido a New York e il conto esibito da Jean Stafford al direttore di «Horizon» lascia immaginare che le due signore bevvero parecchio. In aprile Blixen avrebbe compiuto settantadue anni; Stafford stava per sposarsi, fu il suo terzo matrimonio e l’unico felice. Nata in California nel 1915, laureata in letteratura inglese all’università del Colorado, borsista a Heidelberg, nell’angosciosa ricerca di un luogo in cui mettere radici aveva molto viaggiato tra l’Atlantico e il Pacifico prima di stabilirsi a New York nel ’57. Il suo libro d’esordio, Boston Adventure, era stato accolto nel 1944 da un grande successo di pubblico e di critica. Scriveva allora per «Harper’s Bazaar», «The Partisan Review», «Mademoiselle»; collaborerà più tardi a «The New Yorker» e «The New York Times Book Review». Aveva pubblicato altri due romanzi e una raccolta di racconti. Senza dubbio fu seccata che Blixen continuasse a confonderla con Shirley Jackson. Il ritratto che ne offre su «Horizon» è comunque ammirato: dietro la vecchia baronessa, incapace di muoversi senza bastone, vede la scrittrice ancora giovane mentre attraversa svelta la sua tenuta con i «grandi, vivaci occhi scuri a cui niente può sfuggire».
È possibile che nella faccia martoriata di Karen Blixen, dietro il teatro dei turbanti e del kajal, Stafford avesse intuito una sofferenza non troppo lontana dalla propria. Nel 1938 aveva dovuto subire cinque interventi per ricostruirsi la faccia dopo che Robert Lowell, guidando ubriaco fradicio, si era schiantato con lei a bordo contro un muro di Cambridge in Massachusetts. Di quell’incidente, oltre un numero infinito di fratture, le resterà per sempre il mal di testa e la difficoltà nel respirare. Avrebbe sposato Lowell due anni dopo e un’altra volta si sarebbe lasciata rompere il naso a furia di botte; quando lui chiederà il divorzio, nel ’46, comincerà a fumare e a bere troppo, anche a mangiare troppo poco. Sarebbe morta nel ’79, vedova dell’ultimo marito, lasciando tutto alla domestica. Di veramente suo del resto non aveva più niente, se i postumi di un’ischemia da tre anni le impedivano di parlare e di scrivere. Grande narratrice, maestra soprattutto della forma breve, nel 1970 aveva vinto il premio Pulitzer con la raccolta definitiva dei racconti, The Collected Stories, uscita l’anno precedente. Non stupisce che proprio nel ’68 ritorni a confrontarsi con Karen Blixen. Si tratta di una recensione a una biografia, ma ciò che le interessa di lei è in realtà la narrativa. Osserva i suoi stupefacenti racconti e ne ausculta la sofisticata ricchezza espressiva come l’eloquenza eroica dei personaggi; scruta i paesaggi trasognati; guarda l’orizzonte paradisiaco o infernale dei loro fondali in apparenza così simili ai propri. Infine aggiunge: «Mancano però di una dimensione; la loro storia è fuori dalla storia in maniera disturbante, la loro verità è priva di eco, la loro eleganza e intelligenza e bellezza non impegna il cuore. C’è bisogno di tenerezza e di ironia. La letteratura rifugge da questo vuoto, non l’intrattenimento, la stravaganza, l’effimero».
Jean Stafford firma con queste parole, lasciate cadere quasi con noncuranza sulla pagina, una delle sue più esatte dichiarazioni di poetica. È infatti miracoloso l’equilibrio che la sua opera raggiunge tra lo scorrere implacabile della realtà e la fissità magnetica di un tempo saldamente radicato nella storia ma insieme astratto da qualsiasi misura convenzionale; tra la precisione algida del simbolo e la verità sanguinosa del cuore; tra l’arabescata raffinatezza stilistica e la viscerale forza emotiva della trama; tra il rigore ferreo della struttura e la vitalità scomposta della lingua. Ironia e tenerezza non sono mai disgiunte dalla tagliente benché onirica sincerità dello scenario psichico. Lo attesta il suo secondo romanzo, lo straordinario Il puma, uscito in edizione originale nel 1947 e ora pubblicato per la prima volta in italiano da Adelphi («Fabula», pp. 221, € 19,00) nella luminosa, acrobaticamente precisa quanto stregonescamente sensibile traduzione di Monica Pareschi. Si tratta davvero di un piccolo capolavoro e colpisce che finora in Italia sia apparsa di Stafford solo una scelta di racconti stampata da Rizzoli nel 2011. Ambientato tra la California e il Colorado, velatamente autobiografico, Il puma narra la storia di due fratelli, maschio e femmina, massimamente bizzarri quanto allergici a ogni bigotta norma famigliare, il cui medianico legame irreparabilmente si lacera con l’approssimarsi dell’adolescenza. Ralph acconsente a crescere seguendo il richiamo del mondo adulto e della sua virilità; bambina solitaria, aspirante scrittrice, Molly si arresta invece su una soglia invalicabile.
«Non mi interessano i finali allegri, ma solo i finali veri, basati su vere premesse, su quel distacco dai capricci e dalle disavventure dei nostri protagonisti che ci trattiene dal farne degli improbabili prodigi ma ci permette invece di essere psicologicamente logici» affermava la scrittrice durante una conferenza tenuta a Bard College otto mesi dopo l’uscita del libro. La verità psicologica scaturisce nel romanzo da un’architettura rigorosa, edificata sulla specularità e sul doppio, dalla fitta rete dei richiami interni come dall’asimmetria con cui il tempo scorre dentro la trama; anche dall’accento posto sull’accumulo paziente dei dettagli piuttosto che sull’azione; dalla scelta di un indiretto libero flessibile nella tonalità meditativa quanto esatto nei registri della reminiscenza e della descrizione. Risultano strumenti indispensabili a produrre la temperatura elettrica della narrazione l’uso straniante di similitudini e metafore, l’aggettivazione emotiva e la scia intermittente ma compatta di simboli; l’atmosfera espressiva che dal domestico scivola nell’avventura e vira verso il gotico. Dirà la scrittrice in un’intervista del 1957: «La mia teoria sui bambini è la mia teoria sulla scrittura. La cosa più importante nella scrittura è l’ironia e noi troviamo più chiaramente l’ironia nei bambini. La vera innocenza dei bambini è l’ironia. L’ironia, credo, è una forma di moralità molto alta».
In questa storia di spaesamento e di perdita, di perturbante incertezza tra sentieri opposti, di fughe e nostalgie che alludono a una divergente ricerca di identità, l’ironia spinge la tensione drammatica a vibrare sotto la superficie degli eventi, la domina per lasciarla esplodere dentro la testa dei protagonisti. Stafford mostra una grande sapienza nello slittamento del punto di vista, che passa inavvertitamente da Ralph a Molly, ma che coinvolge anche una voce neutra, non sempre identificabile con quella dell’autrice. «L’infanzia di Ralph e di sua sorella morì nel momento stesso in cui il treno sbucò nella valle adamantina. Era un paradosso, perché adesso stavano per entrare in una galleria senza fine, adesso che avevano sentito il diavolo parlare». Difficile incontrare un libro in cui il disagio dell’infanzia, anche il rovinoso dolore della sua fine, sia raccontato con un’efficacia così bruciante e vera. Un po’ jamesiana belva nella giungla e un po’ marlin hemingwayano, il puma di Jean Stafford occupa tra i miti della narrativa novecentesca uno spazio non troppo lontano dall’assai più celebre faro di Virginia Woolf.
L’anno in cui esce il romanzo la fotografa Irving Penn: bionda e bellissima, chissà il trucco necessario per coprire i segni degli interventi, appare fasciata da un abito nero e distesa su qualcosa che sembra una roccia ma forse è solo un sacco. Somiglia alla femmina di puma del suo romanzo. I suoi occhi malinconici sono color nocciola, non topazio come li vede Ralph, né verdi come li pensa Molly: come il puma ci fissa però con uno sguardo che è insieme spaventato e consapevole. Proprio come il puma, poiché non possiamo sostenere la sua forza, ci fa sentire in pericolo.