Se il cinema classico ha al centro l’azione come modifica volontaria di una situazione, l’incontro è qualcosa di imprevedibile. Il cinema moderno, lo pensava anche Zavattini, è un’arte degli incontri. Partirei da una citazione di Luc Dardenne: «Incontrare qualche cosa, qualcuno, una materia, una superficie, un corpo estraneo, sconosciuto».

In che senso per voi il cinema è soprattutto un’arte degli incontri?
Quando penso al tema dell’incontro penso a una sequenza di Rosetta, in cui la ragazza è stesa sul letto e dice: «Io ho incontrato un amico, tu hai incontrato un amico». Rosetta è un personaggio talmente solitario che ripete a sé stessa le parole ed è come se queste tornassero a lei attraverso la sua voce. In rapporto a Rosetta, questo effetto del piangere e del ridere sono due emozioni fondamentali per rompere la solitudine. Il cinema come arte scatena queste due emozioni che hanno un primo effetto sulla solitudine. Nei nostri film, a eccezione del primo, il momento dell’incontro coincide con il momento del cambiamento. Attraverso l’incontro con un’altra persona, il personaggio che fino ad allora era chiuso nella sua solitudine riesce ad uscirne, senza sapere come. Pensiamo a un esempio letterario, Vita e destino di Grossman, in cui ha luogo un piccolo incontro e un piccolo gesto di bontà, senza ideologia e senza religione, in cui tutto avviene senza sguardi esteriori.

Bazin afferma a proposito di Ladri di biciclette che il disoccupato e il figlio fanno una serie di incontri e attraversano una serie di situazioni che possono essere invertite nella loro sequenza senza che la logica del film cambi. Questo significa una cosa di capitale importanza per il cinema. La questione dell’intreccio e della sua logica non è più così importante e decisiva. I vostri film non sono costruiti intorno a intrecci vincolanti, ma intorno a personaggi, il cui nome talvolta si trasferisce nel titolo stesso del film (Rosetta, Ahmed). Un personaggio in condizione di isolamento e incomunicabilità che non riesce a interagire con gli altri e con il mondo.
Partirei dal rapporto tra padre e figlio in Ladri di biciclette. Se guardiamo il film come un viaggio in città che i due compiono alla ricerca della bicicletta, in cui il bambino segue il padre, assecondando i suoi movimenti, notiamo a un certo punto che, quando il padre ruba una bicicletta – compiendo un gesto in principio impensabile – per salvare sé stesso e il proprio lavoro, i due personaggi non sono più uno dietro l’altro, ma padre e figlio sono insieme e si tengono la mano. Ha avuto luogo un incontro, un movimento di corpi, di due individui, che rimano con quelli propri del film. Si tratta di un incontro al quale partecipano interamente, coinvolgendo persino lo spettatore. Non sembra qualcosa di organizzato, ma è come se il movimento del film raccontasse anche il movimento interiore dello spettatore.

In Rosetta è il movimento dei corpi di Riquet e Rosetta a produrre l’incontro, eccedendoli. Compiendo un giro con il suo motorino attorno a Rosetta, è come se Riquet preparasse il momento dell’incontro, circoscrivendo uno spazio. Per ritornare alla struttura del nostro lavoro, potrei citare Il figlio in cui Olivier Gourmet incontra l’assassino di suo figlio. Tutto è calibrato sul lavoro dei personaggi. Essendo carpentiere, Olivier deve misurare e quindi prepararsi all’incontro e insegnare il mestiere all’assassino di suo figlio. C’è una scena chiave in cui il ragazzo deve misurare la distanza che intercorre tra lui e il mastro carpentiere. Ciò che è ai bordi dell’inquadratura rende possibile sia che Olivier si vendichi finendo con l’uccidere l’assassino di suo figlio sia che lo abbracci e gli stringa la mano affinché continui a vivere. Sono due possibilità che aleggiano attorno all’inquadratura e quando le filmiamo si sprigionano entrambe, o una delle due.

Tutto ruota attorno ai corpi. In principio l’inquadratura è costruita in modo da isolare Olivier: vediamo il suo corpo, non quello del ragazzo, se non di spalle qualche volta, ma non vediamo mai il suo viso. A un certo punto li vediamo insieme all’interno dell’auto di Olivier, nel medesimo spazio, che non è altro che lo spazio del dialogo in cui il ragazzo potrà dire la verità. Quando ha luogo la confessione del ragazzo, nell’inquadratura fa irruzione quella carica violenta mai realmente sopita, fino ad allora rimasta fuori campo, e sembra che tutto possa succedere, che Olivier uccida il ragazzo: ma non lo farà, si fermerà a osservare lo sguardo del ragazzo steso a terra. Si concederà la possibilità alla vita di continuare in qualche modo, senza occuparsi troppo di perdonarlo o meno. Il nostro lavoro di messinscena è costruito attorno a una distanza concreta tra i personaggi, alla sua variazione, agli ostacoli che si frappongono tra i corpi, alle porte, aperte o chiuse che siano. In L’eta giovane Ahmed è perennemente in corsa, senza che nessuno riesca a frenarlo, e dunque senza che sia possibile alcun incontro. Negli altri film invece c’è sempre una possibilità che questo incontro possa avvenire, facendo sì che i personaggi cambino, crescano.

Ci sono degli elementi che definiscono una vera e propria tradizione del cinema moderno, che parte da Rossellini passa per Bresson e arriva al vostro cinema. La sorpresa per cui il finale non può essere letto tramite un’evoluzione psicologica dei personaggi, potrebbe chiamarsi «miracolo» in senso laico, che fa sì che si determini una nuova fiducia non spiegabile nei confronti della vita e del mondo. Il personaggio non fa esperienza vera. Anzi tutta l’esperienza che ha accumulato fino a quel momento lo porterebbe in un’altra direzione. Nel finale di «Viaggio in Italia» di Rossellini, ad esempio, marito e moglie scommettono sul loro matrimonio in maniera «folle», perché da quanto emerso fino a quel momento il loro destino di coppia avrebbe avuto come soluzione più naturale quella della separazione. Molti personaggi dei vostri film sembrano non avere possibilità di aperture, ma a un certo punto accade qualcosa che, in forma miracolosa, ribalta il loro rapporto con il mondo.
Sono delle parole molto belle. Bisogna filmare il destino: sia il determinismo sociale sia l’anti-destino. Questa è forse la vera sfida. Prendiamo L’enfant – Una storia d’amore. Verso la fine del film Bruno salva un ragazzo dalla sua banda. Lo riscalda evitando che muoia assiderato e quando poi la polizia arriva sul posto arresta il ragazzino e non lui. Bruno si ritrova da solo, avendo fatto un gesto per certi versi sorprendente ma al contempo tutt’altro che eccezionale. Segue un momento di silenzio che lo conduce al commissariato dove ritrova il ragazzo che è stato arrestato e lì confessa di essere lui il capobanda. Non siamo ancora alla fine del film, ma sono delle parole sorprendenti, frutto di un gesto altruista.

È come se il suo gesto avesse bisogno di un certo lasso di tempo – per lo spettatore e per lui stesso –, del silenzio, del tragitto in motorino per poter prendere la forma di quelle parole. Era necessario filmare quel lungo momento fisico – Bruno che cammina – affinché potesse dichiararsi responsabile, proprio lui che non si era mai sentito tale nei confronti di nessuno. Tramite questa confessione dichiara non soltanto di essere il capobanda, ma anche il capo- famiglia. Anche questa è una sorpresa e, quando assembliamo il girato in sala di montaggio, riflettiamo a lungo sulla durata della sequenza, affinché si avverta il momento giusto in cui la situazione – il movimento – assume la forma, al contempo, di una sorpresa e di un gesto naturale, arrivato al momento giusto. Solo se il gesto arriva al momento giusto può avere luogo la sorpresa. È quello che in filosofia Aristotele definirebbe la «meraviglia», il momento meraviglioso in seno alla poesia. Noi cerchiamo di captare quel momento morale, quel miracolo meraviglioso. (…)