Dopo la scomparsa di Danièle Huillet (9 ottobre 2006) c’è stata una pausa lunga più di un anno prima che Jean-Marie Straub ritornasse a girare, da solo, con la solita lena e testardaggine. I primi risultati sono stati due lavori molto diversi tra loro, Itinéraire de Jean Bricard e Le genou d’Artémide, presentati alla fine del 2007 alla Cinémathèque suisse e poi, l’anno successivo, al festival di Cannes. Due film diversi ma legati dal tema della morte, mai così incombente in Straub, ed è proprio la scelta di averli proposti uno a fianco dell’altro ad assumere una valenza nuova, direi quasi privata. Il primo film, che porta la firma anche di Danièle (le riprese sono state effettuate dopo la sua morte, ma i sopralluoghi e i lunghi preparativi erano stati fatti insieme dai due registi), è un lungo piano sequenza, girato in bianco e nero e in soggettiva, con la macchina da presa fissata su una barca a motore che risale un tratto della Loira, verso una piccola isola chiamata Coton. Siamo nel cuore della Lorena, terra natale di Straub e più volte frequentata da Danièle. A bordo della barca non si vedono i passeggeri ma solo il loro sguardo: il paesaggio è invernale, crepuscolare, si sente il rumore del motore, lo sciabordio dell’acqua e una voce off che legge alcune pagine del diario di Jean Bricard. Nella nebbia s’intravedono delle forme: case deserte, ruderi, alberi spettrali. La barca arriva quasi a toccare l’isola, accosta e poi lentamente riprende il largo. Prima della fine uno stacco, una croce nel bosco che ricorda che qui, durante la guerra, degli uomini – tra cui un prete – furono fucilati dai tedeschi. Isola dei morti, fiume dell’oblio, il ricordo di una violenza, un martirio.
L’altro film, Le genou d’Artémide, introdotto dalla musica di Mahler (Le chant de la terre) su un insistito schermo nero, ci riporta invece nel bosco di Buti, teatro d’elezione di molti lavori straubiani, e al Cesare Pavese de I dialoghi di Leucò. Il solito piano totale fisso alternato a primi piani frontali che inquadrano due personaggi che raccontano l’esperienza di un incontro irripetibile (quello di Endimione con Artémide, la Dea della caccia) e di un’attesa che si è fatta straziante. Un dialogo nostalgico e poetico per l’altezza del testo, appena raffreddato dalla monodia di chi lo recita a memoria, che poi diventa monologo interiore, riflessione, preghiera, invettiva.
Dunque da una parte un congedo, nel segno della morte e del rimpianto, quasi un filo che non si vuole interrompere (la Lorena, l’acqua che scorre, la barca che risale il fiume senza fermarsi), dall’altra, con Pavese, la ripresa di un lavoro portato avanti da anni, quindi nel segno della continuità ma con l’intenzione di spingersi un po’ oltre.
(…)
L’ULTIMA TRILOGIA SU PAVESE
A prima vista, nel cinema di Straub post Danièle poco è cambiato: identici lo statuto dell’immagine e del suono, la declinazione geometrica dello spazio nell’inquadratura, la resa filmica tesa e nitida, se possibile ancora più essenziale, sia che riguardi l’angolo segreto di un bosco (tutti i film tratti da I dialoghi con Leucò), sia una sponda imputridita del lago Lemano (À propos de Venise), sia un’anonima stanza dove si svolge un interrogatorio condotto da un inquisitore nazista o un balcone dove si svolge, di spalle, un dolente dialogo tra coniugi (Kommunisten). Eppure non è così perché, impercettibilmente, significativamente, nella scelta e nella giustapposizione dei testi, c’è come un discorso che s’incrina e diventa più intimo e raccolto, forse più intransigente, a tratti senza speranza. Sempre più spesso si parla della morte (anche quando «non si nomina») e soprattutto del peso di un’assenza insopportabile, di un altrove irraggiungibile. In Dalla nube alla Resistenza accanto agli dèi dell’Olimpo che discutevano sulle colpe del potere si contrapponeva il dialogo fra due contadini delle Langhe sulla Resistenza e sulle tante occasioni mancate. Protagonisti del film successivo, Quei loro incontri, sono a contendere immortali contro mortali, dèi e contadini, e la questione posta è l’incapacità degli uomini di trovare una piena soddisfazione dalla vita. «Loro che hanno istanti unici non ne capiscono il valore e vogliono l’immortalità». Che è esattamente il preludio della nuova fase intrapresa da Straub, inaugurata da Le genou d’Artémide, il cui tema centrale è proprio l’elaborazione di un «dopo», il corto circuito emotivo prodotto da un’esperienza troppo breve per essere goduta fino in fondo, troppo intensa per poter essere dimenticata.
In Le genou d’Artémide (2008), tratto dal capitolo «La Belva de I dialoghi, il personaggio dello Straniero, commosso dalla sconsolata ribellione di Endimione, gli chiede: «Qualcuno ti è morto?». Ed Endimione risponde raccontando il suo incontro, forse solo sognato, con la dea cacciatrice Artemide, la Bestia Selvaggia, e confessando che da quel momento «non è più tra i mortali». È accaduto che la dea, inaccessibile agli umani, si sia innamorata di lui e di notte, credendolo addormentato, lo abbia addirittura toccato. Ora però quell’avventura è finita ed Endimione non trova più pace. È infelice ma lo Straniero lo invita a non dolersi troppo: «Ciascuno ha il sonno che gli tocca. E il tuo sonno è infinito di voci e di grida, e di terra, di cielo, di giorni. Non hai altro bene che questo».
Nel successivo Femmes entre elles, tratto dal capitolo «Le streghe», c’è una situazione simmetricamente capovolta. Stavolta è una dea (Circe) che rimpiange una notte passata con un umano (l’irraggiungibile Odisseo) che non volle diventare maiale («un animale vicino agli immortali perché privo di memoria»). Circe confessa di aver tentato ogni sortilegio per attrarlo a sé, ha assunto addirittura le sembianze della moglie Penelope, cambiando voce, mettendosi al telaio e infine nel suo letto, ma quel mortale «aveva un cane, una donna, un figlio e una nave per correre il mare». Odisseo aveva la memoria.
Ma è con L’inconsolable che il ricordo prende il sopravvento sul resto. Protagonista è Orfeo risalito dall’Ade, disperato per non essere riuscito a salvare la donna amata, incupito e inconsolabile perché ha compreso che il destino degli uomini è simile a quello della terra, dove si è compiuto il destino di chi ora non c’è più. Il miracolo di Orfeo (la sua metamorfosi) non è la discesa agli inferi ma essere ritornato fra i vivi, con i suoi ricordi e il suo rimorso. La questione come dice Pavese, e con lui ribadisce Straub, è sempre la vita, non la morte, riuscire a vivere e non solo sopravvivere. La donna amata è altrove, la stagione è passata, ma c’è l’albero, la siepe, il bosco e il fiume. E c’è l’uomo, gli uomini. Come sempre nel cinema di Straub il suono delle parole equivale al peso delle immagini, ai suoni naturali del bosco (la pietra che rotola, l’uccello che richiama, l’acqua che scorre). «Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso», confessa Orfeo, che parla all’albero e lo interroga, sapendo che poi dovrà raccogliere le foglie strappate ai rami per rimetterle nella terra, semi pronti a germogliare di nuovo. E questa apertura, pur dentro un pessimismo così cupo, dice che ancora niente è perduto e che il ricordo è ancora da venire. «L’uomo mortale – scrive Pavese e ancora sottolinea Straub – non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia».

Dalla trascrizione del dibattito al Filmstudio il 24 giugno 2001

(Jean-Marie Straub): Il nostro rapporto con il Filmstudio è di fedeltà, dato che a Roma abbiamo abitato a cento metri di qui, a Piazza della Rovere, per dieci anni, dal 1969 al 1979. La sera venivamo qui per vedere dei film bellissimi e rari, come un Mizoguchi senza sottotitoli ed in sala eravamo in quattro. E una volta, proprio nella sala dove ci troviamo stasera abbiamo fatto due proiezioni in anteprima di Othon, il nostro primo film girato a Roma, anche se parlato interamente in francese. È stato girato in esterni, sul Palatino e nei giardini di Villa Pamphili. In quell’occasione la sala era piena di gente, c’erano Bellocchio, Bertolucci, Moravia, Siciliano, e alla fine il pubblico era abbastanza contento. Però durante il dibattito, dopo una mezz’ora di interventi tranquilli, due persone in fondo alla sala, un uomo e una donna, si sono alzati in piedi e indicandomi con un dito hanno urlato: «Signor Straub, siamo insegnanti della scuola francese di Roma e vogliamo dirle che nel suo film non c’è una sola parola francese. Viva Corneille e viva la Francia». E detto questo se ne sono andati, uno dietro l’altro in fila indiana, sbattendo la porta.
Come è nata in voi la scelta di venire in Italia e di lavorarci?
Non è stata una scelta ma un incontro. La scelta è stata di lasciare la Germania, dopo undici anni, primo per cambiare aria, secondo perché avevamo dei progetti da realizzare. In particolare c’era l’idea di girare Othon, dalla tragedia di Corneille, in lingua francese ma in Italia. L’idea non era però il testo di Corneille, ma proprio di fare le riprese a Roma, su una certa terrazza che conoscevamo, il Palatino. In quel periodo, parallelamente alle riprese, sono nati progetti di altri film girati in Italia, Lezioni di storia e Mosè e Aronne.
In un’intervista avete detto che l’Italia è il paese più tragico che avete conosciuto. Cosa intendevate?
(Daniel Huillet): Ho detto, più esattamente, che in Italia c’è una luce tragica, che però in quasi tutti i film italiani viene ignorata o, peggio, viene tradita, ammorbidita. Comunque, è vero, in Italia c’è la tragedia e anche la farsa, ed è quello che amo.
Nella vostra filmografia ci sono film molto diversi tra loro, in cui spesso è difficile trovare una linea comune …
(J.M.S.) Tutti i film che abbiamo fatto costituiscono un ventaglio che arriva da un certo punto ad un altro. Ad ogni film tentiamo di allargare un po’ di più questo ventaglio, a volte si tratta di pochi millimetri, in altre si tratta di centimetri. Certo la visione è sempre diversa. In Operai, contadini sono in scena dodici personaggi, ed è come avere dodici visioni diverse.
In certi vostri film la recitazione ha una cadenza molto particolare, gli attori non sembrano naturali.
(J.M.S.) Niente è naturale, niente. Se tu vedi un film che ti dà l’illusione di vedere qualcosa di naturale, vuol dire che quello che lo ha fatto è un mascalzone. Niente nel cinema può essere naturale, qualcuno può dare l’impressione di farti vedere la realtà dal buco della serratura, ma quello è un pornografo.
Nel vostro cinema l’impressione è di vedere sempre immagini molto piene, solide, accurate …
(J.M.S.) Nelle inquadrature che facciamo tutte le cose che le compongono hanno gli stessi diritti, questa è la democrazia. È la stessa cosa che io dico all’inizio di ogni dibattito col pubblico: per noi tutte le domande fatte dagli spettatori meritano la stessa attenzione. Se tu vai al cinema per vedere un film devi essere costretto ad accordare la stessa attenzione a una lucertola, una mosca, l’aria che cambia, una macchia di luce o di colore che si posa su un attore, che non è mai interessante per se stesso, perché l’attore non è il centro dell’universo, è solo una piccola parte dell’inquadratura: per noi ogni centimetro quadrato del fotogramma ha la stessa importanza, non può essere che il naso dell’attore abbia un’importanza maggiore. L’uomo non è mai stato al centro dell’universo, ha cominciato a credere di esserlo nel Rinascimento, e a quel punto ha cominciato a saccheggiare il nostro pianeta. Il lavoro dell’artista consiste nel materializzare delle sensazioni, più esse sono materializzate in maniera forte, precisa, più quell’artista fa bene il proprio lavoro. In questo modo di procedere la tecnica non ha nessuna importanza, è solo un mezzo. In certi film per il 90% non si vede nulla sullo schermo, vuol dire che quelli che hanno fatto quei film non vedevano nulla e dunque sullo schermo non potevano lasciare nulla. Essi filmano prima di vedere. E poi delegano tutto alla tecnica pensando che essa possa fare il lavoro per loro. Ma la tecnica risponde solo se dietro c’è un cervello, se c’è un cuore, se c’è gente che ha delle sensazioni, sentimenti, rabbia, amori. Se non c’è, la tecnica non esiste.
(…)
È stato detto che «Operai, contadini» è il primo film muto del cinema sonoro. Mi piacerebbe sapere perché
(J.M.S.) Tempo fa ho letto un’intervista rilasciata da Godard al direttore di Libération, in occasione della morte di Hitchcock, in cui diceva che Hitchcock era l’unico cineasta della sua generazione capace di tornare a fare dei film muti. Allora io penso che in Operai, contadini la ricchezza visiva vada ben oltre quello che si sente. Nel film si scopre che l’immaginazione è la cosa più pretenziosa che noi ci portiamo dietro, la più delirante, quella che alla fine vale meno, perché la realtà ci regala di continuo un’infinità di cose sorprendenti, la realtà è mille volte più ricca di qualsiasi immaginazione. Se uno crede di essere ricco grazie alla propria immaginazione, in realtà è solo un povero cretino perché le forme che si trovano in natura hanno messo secoli a formarsi in quel modo, e hanno una ricchezza irraggiungibile.

 

Una festa popolare

L’incontro di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet che qui viene riproposto si svolse in occasione di una rassegna dedicata al loro cinema organizzata dal Filmstudio ’80, in collaborazione con l’Ambasciata di Francia e il Comune di Roma. All’organizzazione aveva fattivamente partecipato anche Americo Sbardella, uno dei fondatori del Filmstudio e un caro amico, scomparso proprio in questi giorni e che voglio ricordar con gratitudine e affetto. La serata dell’incontro, il 24 giugno, era una serata assai particolare perché nella città nelle stesse ore si festeggiava la vittoria dello scudetto della Roma nel campionato di calcio di seria A, e centinaia di migliaia di tifosi avevano invaso le strade e le piazze, e in particolare i cortei delle auto procedevano a passo d’uomo e con i clacson spiegati per il lungotevere che fiancheggia Trastevere (e il Filmstudio) e porta verso il quartiere di Testaccio dove si stava organizzando la grande festa popolare che sarebbe durata tutta la notte. Io per raggiungere il Filmstudio, dove avrei coordinato l’incontro, avevo deciso di arrivarci a piedi, mentre Jean-Marie e Danièle erano stati bloccati per più di un’ora in un gigantesco ingorgo di traffico dalle parti della Piramide. Conoscendoli avevo previsto il loro malumore (lo scandalo per un piacere così effimero), e invece mi accorsi in quell’occasione di conoscerli ben poco, perché li trovai divertiti e quasi eccitati per essere stati coinvolti fisicamente in quella spontanea manifestazione popolare. La situazione, nella piccola sala del Filmstudio, era comunque singolare, con noi chiusi all’interno che parlavamo dell’assolutezza del cinema e del primato della realtà, delle ombre convesse di Cezanne e della indisponibilità dei critici cinematografici ad evadere dal loro pigro specialismo, mentre da fuori arrivava sempre più forte il rumore dei cori dei tifosi impazziti di gioia. Era realtà anche quella, coinvolgente e piacevole come la festa di Testaccio, che raggiunsi subito dopo senza però riuscire a togliermi dalla testa il sorriso sorpreso di Jean-Marie e Danièle.

 

Nota dell’editore

(di Fabio Francione)

Questo libro prende l’abbrivio dalla felice ricorrenza della

consegna a Jean-Marie Straub del Pardo d’oro 2017 alla carriera

da parte degli organizzatori del Festival del Cinema di Locarno. Il

volume, già disposto come supplemento autonomo e allo stesso

tempo parte integrante della trilogia critica di Piero Spila,

progettata per questa collana, “Viaggio in Italia”, e andata

realizzandosi tra il 2010 e il 2016 con i libri “Un’idea di Cinema”,

Abcinema” e “Il cinema e qualche film. Alfabeto critico per

nuovi spettatori” – ed ora con la festa che si prepara per Straub –

non perde la pretesa di consegnare al lettore la più attenta e

sorvegliata monografia dedicata in Italia al regista di Metz (e

all’insostituibile compagna di vita e di cinema Danièle Huillet).

Per l’appunto, redatta da chi l’ha seguito, fiancheggiato e

tentato di sciogliere per circa quattro decenni tutti i nodi critici e

testuali che per più di quattro decenni hanno imbrigliato i suoi

film. E lo fa sulla base di un pregresso retrospettivo, critico,

antologico ed editoriale importante per la ricezione della

cinematografia di Straub, in un paese come l’Italia molto amato

sia dal regista sia dalla coniuge, avendovi non solo ambientato

molti film, ma abitato per anni e cercato di capire la letteratura

più engagé, con in testa Cesare Pavese, Elio Vittorini e la

mediazione a lungo tenuta nei loro confronti dal poeta

brechtiano” Franco Fortini. Non basta come giustificazione,

perché sale la tensione intellettuale ad esaltare ancor più

l’impresa: che, ad ogni nuova lettura, sembra cogliere aspetti

nuovi e inediti della filmografia, aperta anche a contributi esterni

(una selezione di film che parlano di …) e ad una videografia tesa

alla completezza, corredata da una bussola bibliografia che va oltre

l’essenzialità della scelta. Tutto ciò non oscura, anzi illumina i vari

incroci che l’autore ha dovuto attraversare componendo il suo

personale itinerario critico, allineando e giustapponendo materiali

di diversa provenienza e forma (dalla recensione all’intervista;

dall’intervento pubblico al saggio d’approfondimento, passando

per la curatela editoriale e l’organizzazione di retrospettive e

finendo nelle “giunte” degli odierni post.it) in un discorso che non

ha mai e in nessun modo cercato facili scorciatoie o di evitare

sterzate né, in alcun modo e occasione, di approfittare di censure

preventive che tutt’ora, seppur e fortunatamente minoritarie, sono

ancora una delle principali prerogative e peculiarità del cinema

straubiano. Infatti, tenendo conto di tale prospettiva non è

assolutamente da dimenticare nel contesto filmico di Straub la

rilevanza, anche di posizione, che hanno le parole e come vengono

pronunciate.

In conclusione, e con il permesso dato da questo status, desidero

aprire il discorso anche al mio personale attraversamento del

paesaggio e dei personaggi italiani di Straub e Huillet, ritagliato

però sull’ambivalenza teatro cinema e cinema installazione

artistica e ambientale; per inteso: dalla residenza più che

decennale al Teatro di Buti, così foriero di suggestioni e che va

oltre la scomparsa della Huillet, fino alla committenza della

Biennale Arte di Venezia del 2015 con l’ospitalità nel Padiglione

italiano curato da Vincenzo Trione. La lettura osata e quasi

montaliana di scovare nell’ostinazione versificatoria di Pavese,

anche nel Pavese mitografo (quello che più ha interessato Straub)

che ultimamente ed in modo erroneo s’è visto accostare a

Pasolini (e alla sua lettura del mito che, in certo qual modo e non

va dimenticato con comodità, abbandonava la strada, breve a

ben vedere, del cinema di poesia, per approdare attraverso una

serie di film, vere – ora si possono dire – prove generali di un

successo commerciale che per il poeta delle “Ceneri di Gramsci”

arriverà con “La trilogia della vita”, vent’anni dopo il suicidio

dello scrittore della “Luna e i falò”) uno dei migliori espressionisti

in prosa”. Cui fa eco “La poesia italiana del novecento” di

Gianni Pozzi che, nella frontiera “controcorrente” del 1965 anno

della sua uscita editoriale per Einaudi, avvertita ma non condotta

fino in fondo leggendone e non condividendone le pur

comprensibili cautele, così anticipa esiti più tardi (e

confidenzialmente straubiani):”Ma forse per Pavese, piuttosto

che di una integrale contrapposizione, è necessario parlare di

una scrittura poetica del tutto diversa, ma laterale al corso orfico

e decadentistico della parola pura, dell’essenzialità lirica

dell’ermetismo”. Aggiungo: una scrittura ritenuta consapevole,

già un paio di mesi dopo il suo suicidio uscito più da un

critofilm” che da quel faticoso “mestiere di vivere”, di

possedere una logica che – come notò in quell’albeggiar critico

postumo Cesare Garboli, s’ancorava “fedele e ostinata

nell’approfondire un motivo unico d’espressione, che veniva a

sua volta costantemente riscontrato in una conquista morale, con

una rispondenza precisa alla sua ragione di uomo”.

In definitiva, sono quasi vent’anni di lavoro (cumulo di anni,

peraltro, che si rincorrono pur nella retrodatazione delle citazioni

e che finiscono per tracciare inconsapevoli cicli) cui fornisce un

vivo scivolo teorico un brano di “Un cinema contrapposto” del

citato Fortini, prelevato da un’appendice recuperata in extremis

contenuta nell’antologia “Uomini usciti di pianto e ragione”:

«Che cosa significa essere persuasi che le opere di Straub sono

decisive e che aiutano a comprendere gli avvenimenti degli

scorsi venti anni quanto fanno i maggiori episodi della vita

politica? Significa porgere il collo alla loro meritata autorità. Anzi,

e in misura non piccola, fondarla. Quelle parole decidono: ossia

spartiscono, tagliano, dividono. Chi? Non solo chi a quelle

aderisce da chi le rifiuta – non dico le ama, esse inamanti e

inamabili, intolleranti e intollerabili. Non è (non è mai) questione

di gusti ma modo di vedere e dunque di volere il mondo. Il modo

peggiore di rispondere a Straub è dire che i suoi film ci piacciono.

La divisione insomma è fra una parte e l’altra di noi: quella che

non la  sopporta».