Si intitola La sofferenza è animale ed è un prezioso volumetto di Jean-Luc Nancy, curato per Mimesis da Massimo Filippi e Antonio Volpe (pp. 52, euro 6). «Il tempo di questo libro, che si è formato attorno a un breve e denso saggio di Nancy (Animalità animata) e a un’intervista al filosofo francese che da quel saggio ha preso le mosse (La sofferenza è animale), è lungo e, al contempo, fulmineo». Così Filippi ci introduce alla lettura di questo piccolo e stimolante lavoro costruito dai curatori intorno a una sorta di Kehre (svolta) che vuole dare conto di un mutamento di prospettiva impresso da Jean-Luc Nancy al proprio pensiero riguardo la questione animale, descritta qui come «l’irruzione del dissimile animale, emerso dal fondo opaco della filosofia».

Il perno intorno a cui ruota il breve ma densissimo articolo del filosofo strasburghese, come già lo fu il saggio di Derrida che rappresenta lo sfondo aurorale di questa discussione, è la natura animale dell’umano, declinata in relazione alla difficoltà (o impossibilità) teoretica, almeno in Occidente, di pensare l’animale senza l’umano, se non, dunque, sotto la specie della relazione e interconnessione intrattenuta con il mondo umano che non contempla, perciò, la possibilità di un pensiero del/sull’animale come essere in sé e per sé. Filippi, nella sua Introduzione intitolata Da così tanto tempo, ci ricorda che la «questione animale» riemerge oggi, con rilevanti differenze rispetto al passato, in questo testo di Nancy a distanza di oltre trent’anni dal dialogo-intervista che, nel 1988, il pensatore intrattenne con Derrida sulla definizione di soggetto, vexata quaestio di tutta la filosofia occidentale novecentesca, e che si può leggere in un volumetto edito in italiano da Mimesis intitolato «Il faut bien manger» o il calcolo del soggetto che con L’animale che dunque sono e con La Bestia e il Sovrano viene a costituire un trittico fondamentale per comprendere la portata del tema nell’orizzonte di pensiero derridiano.

SIN DALL’INCIPIT – «Le parole ‘animale’ e ‘animalità’ contengono una carica selvaggia, indomabile, pulsante, che evoca un’estraneità inassimilabile e inadattabile» – Nancy, che ci ha abituato alla sua scrittura fatta di pieghe, risvolti, doppiezze polisemantiche, opera qui uno slittamento argomentativo desostanzializzando e riposizionando il tema in chiave, a lui particolarmente cara, di significatività linguistica e di interrogazione sul suo senso e sui limiti di esso. Da un lato, ci ricorda la rilevanza dell’idea di «estraneità» che respinge l’animalità lontano da noi umani (sottolineando come, per esempio, «animale» o «bestia» sia pur sempre considerato un insulto nel linguaggio comune), dall’altro rileva la parentela semantica tra animalità e «anima», che sottintende l’equivalenza tra l’animale e «ciò che è animato da un’anima». La radicalità con cui i due curatori pensano che la questione del soggetto passi attraverso o coincida con quella animale, cioè con la storia di un assoggettamento dell’animale da parte dell’umano che per il tramite di quell’esercizio di dominio e soggezione si costituisce in quanto autonomo soggetto antropocentrico, spinge la convinzione di Nancy secondo cui «la questione animale è innanzitutto una questione umana, troppo umana» sui lidi di un antispecismo a cui tuttavia il pensiero del filosofo oppone resistenza, perlomeno sul piano linguistico. Quando egli afferma «l’animalità vive in noi», anzi «l’animale si angoscia in noi», così come quando interpreta l’animalità come quell’«animazione» che combacia con l’«esistenza» stessa, allude sì a una «comune animalità», ma non trascura la nostra rincorsa «all’inseguimento della vita inappropriabile», intendendo con essa proprio quell’«alterità», né coincidente, né assimilabile, della vita «vegetale e animale» intesa come vita altra.

SOTTO QUESTA LUCE Antonio Volpe, nel capitolo che conclude il volume, Tracce animali nel pensiero di Nancy, rilegge alcuni tra i concetti portanti (con/comunità; mondo; esistenza; singolarità plurale; corpo; insacrificabile; ecotecnica) su cui il filosofo ha edificato la sua opera ultracinquantennale alla ricerca dei segni di un’interruzione o cesura con «la tradizione umanista» su cui, tuttavia, si può essere solo in parte d’accordo. Se è vero infatti che nelle risposte sempre acute (e spesso spiazzanti com’è suo costume) che Nancy offre alle domande antispeciste di Filippi e Volpe nell’intrigante conversazione attivamente teoretica del libro emerge con nettezza l’affettività della sua relazione con gli animali della vita e una potente empatia verso la sofferenza inferta loro dagli umani, quel pensiero sempre articolato e complesso, difficilmente interpretabile una volta per tutte, non cede mai completamente alla lettura, senza dubbio provocatoria e appellante, cui il netto posizionamento dei curatori intende spingerlo, il che la rende piacevolmente avventurosa.