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Jean-Louis Trintignant, addio miei cari

Jean-Louis Trintignant, addio miei cari

Il ricordo Attore teatrale di un copione senza fine, una voce dai riflessi misteriosi, a volte esile, profonda o infantile

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 25 giugno 2022

«Bella la vita!» è questo l’unico verso tradotto in un’altra lingua che sentii dire a Trintignant. Lui che non poteva immaginare la poesia tradotta, perché la poesia è una musica, aveva fatto un’eccezione una sera di aprile, a Solomeo vicino Perugia, era il 2016. La poesia era brevissima e proseguiva poi in francese «dice il fiore e muore». Forse il pubblico non lo sapeva, ma quella sua presenza era particolarmente importante perché per quasi due anni era rimasto in silenzio e avevo temuto che dopo Tre poeti libertari non avrebbe messo in scena più niente. Tornava invece con Trintignant Mille Piazzolla, quello che doveva essere l’ultimo dolcissimo, grandioso capitolo della sua arte. Questa volta era davvero un addio. «Non mi restano che le ossa, sono uno scheletro…», diceva con i versi di Ronsard che avrebbe aggiunto un paio di anni dopo. Un addio inequivocabile che speravamo non arrivasse mai. «Addio miei cari amici vado a prepararvi il posto». Un mix di versi scarni e sensualità, una dichiarazione d’amore sempre rinnovata, ad ogni passo più sincera e più spoglia, per una vita offerta al pubblico, per condividere emozioni insieme a noi. A volte enormi, a volte piccolissime.

Trintignant credeva nella vita, non sempre ne fu ricambiato, nel 1969 a Roma, durante le riprese del Conformista, perse la sua secondogenita Pauline che non aveva ancora compiuto un anno. Ma, nonostante i colpi duri del destino, nel suo sguardo ritrovavi sempre il ragazzo timido del Sorpasso che accoglie il perfetto sconosciuto Gassman come un vecchio amico. Io ebbi la fortuna di incrociare quello sguardo una domenica di maggio del 2004, ero andata a Parigi apposta per vederlo, tornava in scena dopo alcuni mesi di silenzio totale, seguiti alla morte di Marie. E quel suo gesto pensavo doveva essere ricambiato. Recitava Apollinaire al teatro della Madeleine. Lo vidi dietro alla vetrata di un bistrot, qualche ora prima, stava mangiando ed entrai, mi disse di andare a salutarlo dopo lo spettacolo. Ciò che accadeva sulla scena era qualcosa di mai visto. A qualunque profondità potesse arrivare riemergeva un attimo dopo con agilità sorprendente, aveva nella voce tenerezza e gioia.

«Ho inserito alcune nuove poesie, ne cambierò altre, solo questo mi interessa» mi scrisse su una cartolina qualche mese dopo, rispondendo alla mia richiesta di fare un’intervista più lunga alla radio. Nei 18 anni a venire avrebbe continuato quel lavoro infinito, negli ultimi anni le sue tournée erano meno fitte ma continuava a recitare. Fino all’ultimo spettacolo. Dopo Apollinaire venne una commedia, Moins 2, come mai ne aveva recitate.

Una storia comica, tragica, poetica. Lui era un vecchio malato con pochi giorni da vivere che scappava dall’ospedale con un compagno, Roger Dumas. Alla fine il suo personaggio ritrovava la figlia che non aveva mai conosciuto e la riabbracciava in palcoscenico. Lo stesso teatro dove aveva recitato con Marie.

«Non bisogna spiegare troppo le cose – diceva – è come un sogno». Lo viveva con stupore e gratitudine. «Non bisogna mai smettere di cercare». Ma non bastava. Mentre recitava Moins 2 mise su un altro spettacolo: il Journal di Renard, libro che da 50 anni leggeva e rileggeva. Confessioni, piccole annotazioni dell’ autore di Pel di carota. Trintignant si rispecchiava perfettamente in quel mix di candore e di humour noir, raccolta di battute fulminee, provocatorie. Osservazioni sulla natura, a volte tenere a volte crudeli o semplicemente sincere, che si divertiva a cambiare, mettendone ogni sera di nuove, «Mi piacerebbe vedere il copione finito» gli dissi . La risposta era una rivelazione: «Non sarà mai finito».

Il pubblico in certi passaggi sì scandalizzava e Trintignant era felice di quel rapporto a tu per tu , dove poteva sfoderare l’arte di seduttore e sentiva le reazioni immediate della gente, Poi all’improvvsio il tono cambiava, irrompeva la tragedia vissuta dall’autore: il racconto della morte del padre che si era sparato un colpo di fucile. Descriveva tutto, passo dopo passo, fino a confidare un dubbio atroce «e se lo avessi trovato ancora vivo? avrei avuto il coraggio di soffocarlo in un abbraccio?» Era lo stesso gesto che Haneke gli avrebbe chiesto di fare in Amour, quel gesto estremo in cui soffoca la Riva, e penso non fosse casuale. Più o meno in quelle sere mi faceva notare una frase «Avete visto qualcuno alzarsi? No, si sta meglio seduti, anzi sdraiati». «L’abbiamo inserita da due giorni. È una frase politica».

Sembrava quasi ingenuo a volte Trintignant, una frase così semplice, ma l’ingenua ero io. I suoi spettacoli di questi anni erano qualcosa di più di pièce teatrali collaudate, contenevano anticipazioni, visioni impossibili senza il palcoscenico. Poteva spingersi lontanissimo per poi tornare. «È uno spettacolo in movimento» diceva, e il pubblico era lì per seguirlo, attenderlo, lui ci era grato quanto noi lo eravamo a lui forse di più. Poi vennero Boris Vian, Prevert, Desnos, tre poeti libertari. Li amava perché sapevano parlare della vita e della morte con leggerezza. Ad un certo punto prendeva due poesie e le metteva vicine. La prima era «Aujordh’ui je me suis promené», una poesia che Robet Desnos dedicava a un amico che non c’era più, immaginando di camminare accanto a lui. La seconda aveva lo stesso titolo: Prévert l’aveva scritta per l’amico Desnos, morto in campo di concentramento. Mettendole vicine compiva il prodigio di farli camminare di nuovo uno accanto all’altro. La sua voce prendeva riflessi misteriosi, a volte esile a volte profonda, a volte infantile, a volte prevaleva la voce dell’amico, accadeva qualcosa, come se si affacciasse a vedere cosa c’era di là e poi tornasse da noi, mai uguale. Una magia che non sentivo solo io. A Armentieres, nel gennaio 2010, a fine spettacolo era voluto restare parlare con il pubblico. La gente meno timida di lui aveva cominciato a dire cosa pensava. Un signore si era alzato per dirgli grazie pensavo di vedere uno spettacolo invece ho ascoltato un amico. Una signora diceva «il momento più bello è stato Aujourd’hui».

Lo vidi l’ultima volta a Angers, nel giugno 2018.«Merci de cette soirée, chiedetemi quello che volete, scusate per questo spettacolo cosi triste» diceva alla fine, sorridente, curioso. Era «Trintignant Mille Piazzolla», musiche di Piazzolla e l’orchestra di Daniel Mille, il suo fedele musicista. Attraverso le poesie di vari autori (da Allain Leprest a Laforgue, Prévert, Senghor, Carver) dava il suo addio, il suo abbraccio, mai le parole erano così spoglie, mai lo spettacolo così ricco, avvolto nella musica (ne esiste per fortuna una versione integrale registrata su cd e dvd), per la prima volta una dedica a Marie precedeva la splendida Marche à l’amour di Gaston Miron, Nell’incontro anziché parlare dello spettacolo parlava davvero d’altro, della canicola, per esempio, perché dopo uno spettacolo cosi cos’altro volevi aggiungere… «Forse tra 5 o 10 anni non vi ricorderete più di me», diceva poco convinto, con il sorriso sommerso dagli applausi.

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